Giorgio Gandola per “la Verità”
La rimonta di Donald Trump crea un certo panico a Scandicci. Non tanto per la proprietà transitiva del motto catastrofista sui poteri di un battito d' ali di farfalla a Washington, ma perché dalle parti di Firenze e di quel collegio elettorale c' è chi fa un tifo sfegatato per Joe Biden. Che in novembre non può perdere, pena il più definitivo dei #matteostaisereno. L' ultrà è il senatore Matteo Renzi.
Gli amici sussurrano che negli ultimi tempi ha trasferito le sue ruvide attenzioni dal governo italiano ai sondaggi americani; mai stato così concentrato sui decimali degli elettori dell' Ohio e sulle scelte di pancia dei farmer del Midwest. Il motivo è professionale: se vince Biden, il signor tre per cento ha un lavoro.
Constatato che Italia viva in realtà vivacchia e che Giuseppe Conte non ha alcuna intenzione si schiodarsi dalla palude, l' ex premier ha deciso di tentare la carta internazionale e si è messo in testa di diventare il prossimo segretario generale della Nato. Ruolo di prestigio anche se molto meno delicato di un tempo, comunque con una centralità istituzionale che Renzi ritiene essere perfetta per lui.
Sembra già di vederlo fra pranzi con le bandierine segnaposto, gli storytelling scritti da Sandro Veronesi e Michele Serra, passerelle davanti ai picchetti schierati, voli intercontinentali gratis, inni nazionali e champagne in compagnia di altrettanti flanelloni stile british. Insomma quel côté diplomatico dal potere fatuo che sembra costruito apposta per esaltare le doti da Alberto Sordi digitale del nostro.
L' aspirazione non è peregrina, il mandato di Jens Stoltenberg scade nel 2022 ed è già stato prorogato una volta. E il debito dei king maker americani nei confronti dei Paesi mediterranei è reale per due ragioni.
La prima politica: nel 2014 Franco Frattini arrivò a un millimetro dal socialista norvegese grazie alle capacità da tessitore di Silvio Berlusconi. La seconda strategica: oggi il Mediterraneo è una delle aree più calde del mondo. Fra crisi libica, questione turca con le mire di Recep Erdogan, fibrillazioni mediorientali con le ingerenze russe in Siria e le instabilità egiziane, migrazioni di massa ormai ingestibili, si è capito che una figura bergmaniana algida e culturalmente distante sarebbe del tutto inutile e renderebbe la Nato ciò che è stata negli ultimi anni: un costoso soprammobile.
Di conseguenza ben vengano l' interesse e il lavoro sotterraneo; per certe cariche bisogna muoversi per tempo. Considerando solo statistica la carica ad interim di Alessandro Minuto-Rizzo per due settimane a fine 2003, l' ultimo latino operativo al vertice fu lo spagnolo Javier Solana nel lontano quadriennio 1995-1999.
Il problema di Renzi però è basico. Se rivince Trump, per lui non c' è speranza di sedersi dietro la grande scrivania nella faraonica sede di Bruxelles costata 900 milioni di euro (l' offerta vincente del consorzio belga-olandese era stata di 458) a coordinare i 30 Paesi membri e ad ascoltare i consiglieri militari in stellette come nei film. Prenda un sigaro, generale. Non c' è speranza perché The Donald non lo vede proprio, l' ha messo nell' elenco dei supporters clintoniani dopo il tifo sfegatato per Hillary, dopo il coinvolgimento nel Russiagate, dopo il tweet di George Papadopoulos e l' accusa di avere contribuito a raccogliere dossier contro la Casa Bianca. Sono lontani i tempi dei complimenti, culminati nella surreale uscita dell' ambasciatore a Roma di Barack Obama, John Phillips: «Renzi mi ricorda Ronald Reagan».
A meno che non intendesse come attore. Il senatore di Scandicci può aspirare al ruolo solo se mister president sarà Joe Biden, proprio grazie all' influenza di Obama. Tutti rammentano la serata alla Casa Bianca nell' ottobre 2016 con Barack e Michelle, Renzi e signora, Roberto Benigni, Paolo Sorrentino, Bebe Vio, Paola Giannotti del Cern, l' ex sindaca di Lampedusa.
A posteriori fu ribattezzata l' ultima cena: un mese dopo Hillary Clinton sarebbe stata travolta da Trump e il premier italiano dal referendum costituzionale. Nonostante ciò, Renzi non ha mai smesso di interpretare il ruolo dell' amerikano liberal sulle orme di Walter Veltroni; due anni fa si è fatto notare alla commmorazione di Bob Kennedy ad Arlington. Le porte dem dovrebbero essere, se non aperte, almeno socchiuse.
L' aspirazione dell' ex premier spiega anche il senso della ricorrente frase in casa Pd: «Se vince Biden vinciamo anche noi». L' interpretazione più superficiale è un collegamento virtuoso fra nazioni contro il populismo (a sinistra siamo sempre all' Ulivo mondiale), in realtà significa: «Così ce lo togliamo dai piedi». Dentro il governo la candidatura sarebbe vista con grande favore proprio per allontanare il Bimbo Minkia, vederlo impegnato in altre faccende, distratto dai carri armati degli stupendi plastici Nato.
Quindi meno concentrato a inventarsi trappole, intemerate prive di consistenza, temporali di mezza giornata per un centimetro in più di visibilità.
Il combinato disposto è pronto, in più il Renzi international troverebbe il modo di recuperare in doverosi stipendi le perdite da Covid, visto che il suo carnet di conferenze e lectio magistralis a 50.000 euro a colpo ha subìto uno spiacevole taglio sanitario. Rimane da soppesare il background istituzionale per una carica che rimane pur sempre strategica. In questo senso lui ha due solide carte da giocare: la totale incompetenza nel campo della Difesa internazionale e la capacità di tradurre a beneficio degli alleati i reconditi pensieri del ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio.
Due virtù da pole position.
A proposito del battito d' ali a Firenze, la notizia sta già creando scompiglio nelle redazioni per il prestigioso ruolo di portavoce. Pare che l' esercito di giornalisti liberal affezionati a Renzi (cioè lo zoccolo duro del 3% di Italia viva) sia corso in soffitta allo sparo dello starter. Stanno cercando tutti il congedo militare da mettere nel curriculum.