Domenico Quirico per “la Stampa”
VLADIMIR PUTIN JOE BIDEN - ILLUSTRAZIONE TPI
È vero: la guerra ahimè! È chiarezza, e la politica frustrazione. E spesso chi ha vinto la prima perde perché non sa giocare altrettanto bene le carte, imprevedibili e confuse, della seconda. Chi decide di giocare l'azzardo supremo deve sapere che la guerra ha i suoi ritmi. Le grandi vittorie campali sono importanti, ma non bastano. Bisogna coronare l'opera privando il nemico dei mezzi materiali e degli uomini necessari per cercare la rivincita. E soprattutto occorre completare la vittoria con un accordo per regolare il mondo del dopoguerra; che inevitabilmente non può esser più quello che esisteva al momento in cui tutto è iniziato. La guerra distrugge e si accanisce anche contro ciò che è immateriale, anche le aspettative e le speranze, e calpesta tutto con le sue ruvide suole.
La guerra resta un gioco di azzardo con una posta molto, molto alta, non ci sono certezze. Anche se hai fondato, da uomo di occulti e temerari progetti, il tentativo su basi solide resta sempre un rischio elevato di perder tutto perché non è un certificato di deposito bancario in cui sai che ci sono comunque tassi di garanzia.
Guardate i russi: con elaborata disonestà dell'anima hanno scatenato l'invasione dell'Ucraina puntando sulla strategia «shock and awe», sorpresa e terrore. Volevano scopiazzare gli americani facendo una guerra bibliograficamente complessa, che non è la loro, basata sulla lentezza, la distruzione sistematica, l'impiego del peso quasi fisico della loro potenza per schiacciare l'avversario soffocandolo.
Così la guerra si è prolungata ed è diventata sempre più complicata, costringendoli a ritornare dopo aver patito gravi insuccessi alla callida ferocia della loro tecnica tradizionale: e con questa da consumati e secolari ingegneri di forche vinceranno schiacciando l'Ucraina. A meno che gli Stati Uniti non scendano direttamente in campo.
Superata la sorpresa iniziale ognuno delle parti in guerra tende inevitabilmente ad aumentare l'entità del proprio investimento, il nudo cinismo della forza, e cala la volontà di rassegnarsi a cedere. La mossa che si riteneva decisiva, per entrambi, penosamente si rivela solo il primo segmento di apertura del gioco.
vladimir putin joe biden ginevra
Proviamo ad analizzare ad esempio un elemento fondamentale, ovvero quale siano le condizioni della vittoria, ora, per ognuno dei contendenti che sono ben diversi da quelli di due mesi fa. Senza dimenticare gli attori che, almeno dal punto di vista dell'impegno diretto sul campo di battaglia, amano farsi considerare esterni, cioè gli Stati Uniti e i loro volenterosi clienti Inghilterra, Polonia e Baltici. Senza dimenticare gli europei, in ordine molto sparso, sempre più sparso, perenni prigionieri dell'età della coscienza infelice, e dispostissimi se la Storia lo concedesse loro, di ripetere in eterno il gesto di Pilato.
Come sempre a proporre una logica cartesiana (li aiuta il fatto che a rischiare la testa sono loro, non gli Alleati blateranti, la possibilità di morire rende la Logica feconda) e soprattutto a dire le cose senza ipocrisie, sono gli ucraini.
L'analisi acuminata è quella di Kirill Budanov, capo del Kgb militare ucraino. La fine della guerra per Kiev si fissa in due possibilità di vittoria, entrambi radicali e coincidenti: «La disintegrazione della Russia o la rimozione di Putin con una sopravvivenza relativa della Russia»'. Ben detto, senza astuzie di intrichi verbali. Coincide esattamente con quella che è diventata la vittoria minima per americani ed inglesi.
Qualsiasi finale con risultati inferiori sarebbe peggio che un secondo Afghanistan: perché Putin è una pedina che vale molto di più del mullah Baradar. Sono stati gli Stati Uniti che nel corso di questi 70 giorni metodicamente, con vagiti di guerra totale, hanno indicato i limiti rigidi ed estremi entro cui si fissa la loro possibile vittoria: ovvero spezzare le reni alla Russia come aggressore bulemico e incorreggibile e cacciare Putin e la sua cricca dal potere. Pur sapendo che la guerra, impietosa, premia il realismo e dissolve i sogni.
Biden e i suoi avventurosi consiglieri si sono da soli infilati in trappola puntando non a una battaglia, ma a un'esecuzione. Ora salvare l'Ucraina perfino nella sua unità territoriale prima del 2014 non è più la vittoria.
vladimir putin con il presidente svizzero guy parmelin
Tutto ciò che è inferiore alla distruzione militare della Russia e alla fine del suo regime tirannico equivale a una bruciante sconfitta.
Gli ucraini possono essere soddisfatti. Hanno meticolosamente lavorato per portare i loro alleati più volenterosi e maneschi, passo dopo passo, a queste condizioni estreme e inaggirabili di vittoria. Che coincidono perfettamente con quanto esigono, e con ragione, per ripagarsi delle perdite sanguinose e dei danni immensi dell'aggressione: riconquista dei territori perduti e la eliminazione per lungo tempo della minaccia russa.
Ma c'è, come sempre nella guerra, un effetto eguale e contrario che nasce da ogni mossa di ognuno dei contendenti. Le caratteristiche della vittoria che serve agli americani significa anche che sono cambiate, a favore di Putin, le condizioni di una vittoria russa. All'inizio le smanie putiniane, per non dover ammettere il fallimento dell'aggressione, esigevano di esibire l'occupazione di tutta o gran parte dell'Ucraina e l'umiliante consenso americano a rinegoziare le sfere di influenza nell'Europa centrale. Un azzardo con i germi del disastro. Ora, grazie agli americani, per cogliere la vittoria gli basta resistere all'assalto restando vivo e al potere. La guerra, hegelianamente astuta, si è divertita a scombinare le carte.
Può sembrare un paradosso. Anche se sul terreno al momento del passaggio da una guerra grossa e spettacolare a un conflitto di trincee, al basso profilo degli ultimi otto anni nel Donbass, le truppe russe fossero inchiodate alla situazione del 24 febbraio ma Putin fosse ancora al Cremlino potrebbe davvero far sfilare trionfalmente le truppe sulla Piazza Rossa.
Perché potrebbe vantarsi di aver respinto l'attacco degli americani e di loro 40 alleati, di aver resistito alle sanzioni e al blocco economico del capitalismo plutocratico. Quanto basta per inorgoglire la antica volontà di resistenza russa. Sul piano della propaganda interna vale forse molto più che qualche inutile chilometro di steppa sarmatica.
Le condizioni della vittoria degli europei sono state forse giudiziosamente fissate molto più in basso: la scomparsa di Putin era auspicata ma sempre molto sottovoce, le sanzioni economiche possono sparire rapidamente nel caso di tregua o di un accordo anche al ribasso tra Ucraina e Russia. Il problema è convincere Kiev, e gli americani, ad accettare la sconfitta.