Giancarlo Perna per “La Verità”
pier carlo padoan antonio patuelli ignazio visco
Nessuno come Antonio Patuelli è trapassato intatto dalla prima alla seconda Repubblica, reinventandosi. Noto come politico negli scorci del secolo scorso, è tuttora personaggio di prima grandezza ma nel campo della finanza. Gli antipodi. Sicuramente, è il notabile del passato che si è meglio imposto nel presente, rinascendo come la fenice dalle ceneri di una stagione morta. Ieri, fu deputato e vicesegretario del Pli, oggi è presidente dell' Abi (la Confindustria delle banche). Ma i due Patuelli non si parlano.
Lasciata 25 anni fa la Camera, cupamente immersa nelle inchieste di Tangentopoli, Antonio l' ha cancellata come un incubo, tagliando con la scure le due fasi della sua vita. Se oggi parla di sé, è unicamente per indossare la marsina del banchiere o per dire che è un appassionato agricoltore delle sue tenute emiliane. Se proprio si dilunga, accenna ai suoi studi sul Risorgimento e all' attività di editore (parsimonioso) di Libro aperto, rivista fondata da Giovanni Malagodi, icona del liberalismo politico novecentesco.
Mai fa però parola sui trascorsi montecitoriani. Eppure, non avrebbe nulla da nascondere.
Era, Patuelli, tra i deputati più attenti ai rapporti con la stampa. Aveva una specialità: guardare continuamente le telescriventi e ispirarsi alle notizie di agenzia per una dichiarazione. Sprizzata l'idea, correva in Transatlantico e la confidava al primo cronista, sperando di essere citato nell'articolo dell'indomani. All'epoca, 1983, IX legislatura, Antonio era un ragazzone, alto e allampanato, di 32 anni. Aveva spiccato accento romagnolo - vive a Ravenna - e una voce da contralto, con una erre rasposa, che ne faceva l' emulo maschile di Rosa Russo Jervolino. Ma chi era veramente lo sveglio giovanotto liberale dai modi accattivanti?
Di colta famiglia emiliana proprietaria di terre, nato a Bologna, Antonio si era laureato a Firenze in Legge. Colà, si legò al repubblicano, Giovanni Spadolini, senza perciò avere la tentazione di lasciare il Pli, a cui si iscrisse in fasce. Già nel 1976, venticinquenne, il ragazzo era segretario nazionale dei giovani liberali. Altro suo estimatore di livello e di altro partito, era il dc, Francesco Cossiga, che di lì a poco sarebbe diventato presidente della Repubblica. Patuelli militava nella sinistra liberale che faceva capo a Valerio Zanone, il segretario. A Bologna però era un oppositore interno, poiché nella regione comandava il moderato Agostino Bignardi. Con lui, ebbe un braccio di ferro al momento di candidarsi nel 1983. Già astuto come una faina, Antonio chiese di essere testa di lista, per assicurarsi l' elezione. Bignardi optò invece per l' ordine alfabetico e la P, come si sa, è piuttosto in fondo. Il Pli, inoltre, non era al suo meglio e al massimo poteva sperare in un solo eletto nel collegio: il leader locale. Ma 15 giorni prima delle urne, Bignardi morì improvvisamente, lasciando voti e posto ad Antonio.
Durante la legislatura, Zanone perse la segreteria contro lo sfidante di destra, Alfredo Biondi. Patuelli, che si era riposizionato tempestivamente, divenne vicesegretario del nuovo venuto. Ma non fu l' unico poiché Biondi, salomonicamente, ne voleva di tutte le tendenze. Così, ad Antonio, affiancò il toscano di sinistra, Raffaele Morelli, e il messinese, Enzo Palumbo, di altra sfumatura che mi sfugge. Il trio fu detto dei «3 porcellini». Patuelli, che era alto e filiforme e del porcello non aveva nulla, semmai del lungo salame, non si adontò del soprannome, precisando però che lui non era «né Timmy, né Tommy ma Gimmy, quello furbo».
Nel 1987 non fu rieletto ma nessuno se ne accorse perché Antonio continuò a circolare per Montecitorio e tutti lo credevano ancora deputato. Una volta che dissi, non so più a che proposito: «Bisognerebbe chiedere a Patuelli di presentare un' interrogazione» saltò fuori, approfondendo, che non poteva farlo perché non era più onorevole. Nelle more, aveva trovato rifugio come impercettibile consigliere comunale di Bologna. Nel 1992, XI legislatura, tornò a Montecitorio, senza che a quasi nessuno venisse in mente che c'era stato un intervallo.
mario draghi carlo azeglio ciampi
La mattanza di Mani pulite stava però cambiando il mondo politico. Patuelli assaporò brevemente la sua promozione a sottosegretario alla Difesa del governo di Carlo Azeglio Ciampi. Appena insediato, si vantò di sedere alla stessa scrivania che fu di Italo Balbo. Altri, nello stesso tocco d' anni, raccontavano di avere rifiutato la sedia di Benito Mussolini o ripescato in cantina il portaombrelli di Palmiro Togliatti.
Giocava in costoro un bisogno di legittimazione da contrapporre agli arresti continui. Anche a Patuelli arrivò un avviso di garanzia. Gli si rimproverava di avere preso 30 milioni di lire - 15.000 euro - da una società farmaceutica. E qui si vide la tempra liberale: pur affermando la piena regolarità del contributo, Antonio si dimise dal governo. Poco dopo fu prosciolto e restò immacolato. Ma, scaduta in anticipo la legislatura nel 1994, non volle ripresentarsi nella successiva, nonostante l' amichevole minaccia dell' amico Cossiga di prenderlo a pedate se rinunciava. Chiuse così per sempre con la politica, irremovibilmente, non volendo neppure tentare, come molti del suo partito, la ripartenza con Silvio Berlusconi, trionfante nuovo venuto.
Ricco di famiglia, Patuelli prese a occuparsi dei beni di casa. Aveva dal padre una quota della Cassa di risparmio di Ravenna di cui era primo azionista privato. Espugnò la banca con la caparbietà del fante sull' Adamello e la guida ormai da decenni, tanto che la sua presidenza è parte del panorama cittadino come il Mausoleo di Galla Placidia. Intessé la nuova vita di onorificenze, tube e tight. Divenne membro di diverse accademie, Agricoltura, Georgofili, Incamminati, e altre vetustà rinascimentali. Ha brigato a lungo per ottenere nel 2009 la spilla di Cavaliere del lavoro, chiedendo appoggi a destra e manca. Poi, però, non muove un dito se sono altri a chiedergli un favore.
Patuelli ha raggiunto i vertici del mondo bancario con la nomina, 6 anni fa, alla presidenza dell' Abi. Per conquistare la poltrona e mantenerla, ha utilizzato i magheggi appresi negli anni della politica. Fu lui, semplice delegato della sua provinciale Cassa di risparmio, a suggerire di alternare, nella presidenza dell' associazione, un rappresentante delle grandi banche con uno delle piccole. Il lodo Patuelli, come fu chiamato, tornò utile allo scoppio dello scandalo che covava da tempo: il crac del Monte dei Paschi.
Così, quando nel 2013, Giuseppe Mussari, che era presidente dell' Abi e del Monte, dovette mollare di corsa, Antonio, che aveva previsto tutto, ne prese il posto. Fu eletto per acclamazione, come un approdo sicuro dopo un drammatico naufragio.
maria elena boschi con antonio patuelli e moglie
Sulla sua gestione, non ho titolo per pronunciarmi. Certo, è successo molto: dai fallimenti bancari, alla rissa tra Bankitalia e Consob, al bail in. Patuelli si è barcamenato con la dignità del Cavaliere del lavoro, socio di accademie. Tirate però le somme, il timoniere dev' essere piaciuto poiché il suo secondo mandato è stato prolungato di un biennio grazie a un ritocco allo statuto. Ora, se tutto va come pianificato, nel 2020 lascerà l' incarico con pifferi e tamburi. Pronto a iniziare la sua terza vita.
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