Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera”
Al depistaggio del 2009 , alle coperture del 2015 e ai tentativi di avvicinamento di testimoni del 2018 si aggiungono i «non ricordo» del 2019. Come quelli del generale Vittorio Tomasone, all' epoca comandante provinciale dell' Arma a Roma che, ascoltato come testimone, non sa dire perché il 1° novembre 2009, a dieci giorni dal decesso, firmò un documento dal quale si evince che i carabinieri avevano già tratto le loro conclusioni sulle cause della morte di Stefano Cucchi; le stesse a cui soltanto dopo arriveranno i consulenti del pubblico ministero e poi i periti della Corte d' Assise che processò gli agenti di custodia.
Un deficit di memoria che si può forse spiegare con i quasi dieci anni trascorsi, ma che certo contribuisce a rendere sempre più «sconcertante e inquietante» (per usare le espressioni del pm Giovanni Musarò) quello che accadde intorno alla vicenda di un tossicodipendente spacciatore arrestato, picchiato e morto sul letto del reparto penitenziario di un ospedale senza che nessuno si accorgesse di quello che stava accadendo.
Anche perché a quei «non ricordo» vanno sommate le amnesie e le contraddizioni di altri alti ufficiali dell' Arma, indagati nell' inchiesta sui falsi e sui favoreggiamenti che hanno fin qui nascosto la verità. In particolare un generale e un colonnello, che pure ebbero a che fare con l' appunto - sottoscritto da Tomasone, ma prima di lui dall' allora comandante del Gruppo Roma Alessandro Casarsa - dove si legge che «i risultati parziali dell' autopsia sembrerebbero non attribuire le cause del decesso a traumi», che al detenuto era stata «riscontrata frattura di vertebra lombare e del coccige che sembrerebbe riferita a un periodo significativamente antecedente», più altri particolari.
È l' anticipazione delle perizie che escluderanno la connessione tra le percosse subite da Cucchi e la morte, di cui il colonnello Francesco Cavallo, all' epoca «braccio destro» di Casarsa, interrogato come indagato per falso il 12 dicembre scorso, ha detto al pubblico ministero: «Scrissi materialmente la lettera, seguendo le indicazioni del colonnello (oggi generale, ndr ) Casarsa.Le informazioni contenute facevano parte del patrimonio conoscitivo di Casarsa, non so dirvi come lo stesso potesse avere una conoscenza così dettagliata degli accertamenti medico-legali in quel momento ancora in corso».
Chiamato a difendersi un mese fa, il 28 gennaio, Casarsa ha risposto: «Non so dirvi da chi ebbi le informazioni riportate nella nota. Prendo atto che Cavallo ha dichiarato che l' aveva scritta lui su mia dettatura, ma io escludo tale circostanza».
Stesso discorso per ciò che riguarda le due relazioni di servizio dei carabinieri Gianluca Colicchio e Francesco Di Sano, modificate su richiesta della scala gerarchica come dimostra la e-mail con cui lo stesso Cavallo le rimandò al luogotenente Massimiliano Colombo, con il commento «Meglio così».
Su quelle modifiche Cavallo ammette: «Sicuramente ricevetti disposizioni dal comandante del Gruppo, il quale quella mattina ebbe continue interlocuzioni personalmente con il maggiore Soligo (anche lui indagato, ndr )». Replica di Casarsa: «Ignoravo tale circostanza... Cavallo si rapportava direttamente con me, ma sicuramente non ebbe da me la disposizione di modificare le annotazioni».
Le relazioni truccate, in cui scomparirono alcuni malori lamentati da Cucchi la notte dell' arresto, o il fatto che non potesse camminare, mentre fu inserito il riferimento al «malessere verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza», sono alla base dell' informativa che l' allora ministro della Giustizia Alfano fece al Senato il 3 novembre 2009. Utilizzando gli appunti che dalle stazioni risalirono al comando provinciale, e poi a quello generale fino al ministero della Difesa che li trasmise alla Giustizia.
In un documento proveniente dall' Arma e arrivato sul tavolo di Alfano il 2 novembre, si afferma che l' arresto di Cucchi e le fasi successive si svolsero «senza concitazione né particolari contatti fisici»; che il detenuto non presentava «contusioni o ecchimosi diverse da quelle della tossicodipendenza in fase avanzata»; che era «autosufficiente nei movimenti»; che soffriva di «gravi patologie: epilessia, anoressia e sieropositività».
In realtà il detenuto non era né anoressico né sieropositivo. E Casarsa dichiara: «Prendo atto che tale circostanza non è vera, ma io mi limitai a leggere il contenuto dell' appunto e non mi posi il problema dell' attendibilità delle fonti». A parte l' infezione Hiv, il resto fu letto in aula pressoché integralmente da Alfano.
Con l' effetto di scaricare fin da subito le eventuali responsabilità sugli agenti della polizia penitenziaria (poi processati e assolti), tacendo il vero «buco nero» di tutta la storia: il mancato fotosegnalamento nella caserma della Compagnia Casilina, dove secondo la confessione di uno di coloro che vi presero parte (arrivata solo nel 2018) avvenne il «violentissimo pestaggio» per cui oggi sono alla sbarra tre carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale. Nonostante depistaggi, falsi, coperture e «non ricordo».