Marcello Mancini per la Verità
Matteo Renzi ha fatto sapere a tutti che se anche il Pd dovesse perdere, lui non farà nessun passo indietro. Questo vuol dire almeno tre cose. Che ha imparato a non fare troppo il gradasso perché non gli conviene; poi che la puzza di batosta, ormai, ce l' ha nel naso pure lui e gli rende difficile il respiro.
La terza cosa è forse quella più realistica, benché al momento nessuno lo ammetterà: è cioè che Renzi ha di fatto già creato il suo partito, il PdR, dal quale non può dimettersi essendo lui stesso il titolare. Poco gli importa la consistenza che avrà. Fosse anche solo quella della Margherita, «con un po' di ex dc intelligenti in meno e un po' di ex comunisti e socialisti poco intelligenti in più», come si sfoga uno dei tanti dem delusi. La road map sarebbe già abbastanza avanti, e la spinta verso il nuovo soggetto, tanto più urgente quanto peggiore si profila l' esito
del risultato di domenica prossima.
Nei corridoi del Nazareno circolano voci ma anche qualcosa di più palpabile: esisterebbe già il bozzetto del simbolo che richiama, nel logo e nel nome, «En Marche!», il movimento che ha accompagnato al potere il presidente francese Emmanuel Macron.
D' altra parte, che la seduzione renziana fosse questa si sapeva, filosoficamente coerente con la marcia del segretario dem e con quanto aveva fatto affiorare dopo gli incontri con Macron: un rapporto idilliaco col leader francese e perfino una tentata versione italiana dello slogan, «In marcia». Che traduce l' hashtag usato per la campagna elettorale: #avanti, e che sarebbe stato pronto per essere esportato alle consultazioni europee del 2019, con candidati transnazionali.
In ogni caso, la ritirata di Renzi non ci sarà. Tanto meno il ritiro. Il segretario del Pd ha apparecchiato il post voto in modo da potersi sedere comunque a tavola, anche se la tavola gliela dovessero portare via, appunto, per volontà popolare. Ha esercitato il potere che gli è rimasto come capo dell' ormai vecchio partito, infischiandosene delle conseguenze per la sinistra e per quanti, a sinistra, non la pensano come lui. Ha schierato nelle liste una larghissima maggioranza di candidati pronti a gettarsi nel fuoco. E quindi a seguirlo dove li porta la poltrona. Anche in un nuovo partito che non sia il Pd. La scissione in questo caso la farebbe proprio Renzi, tornato al gol in contropiede come è nel suo stile.
Il suo piano sarebbe quello di annettere altre forze del bacino moderato (Forza Italia?) e comunque di conservare l' ambizione di proporsi come interlocutore in un ipotetico governo di larghe intese.
Finalmente liberato dalle zavorre, per quel poco che possano condizionarlo, della galassia democratica. Il PdR è sempre stato il sogno di Renzi: siccome è troppo complicato impossessarsi di un partito già pronto, troppo difficile rimuovere il fastidio delle critiche interne, se ne fa uno su misura.
Mentre al Nazareno lavorerebbero in gran segreto per il dopo elezioni, Renzi si copre a sinistra. Nel tentativo, residuo, di proteggersi comunque dietro le insegne del Pd, si è blindato con il titolo di «segretario delle primarie», come se da quel voto di un anno fa fosse stato consacrato a vita. Le primarie non valgono in eterno e non possono essere uno strumento democratico per legittimare un potere assolutista. Il primo segretario del Pd, Walter Veltroni, scelto dagli iscritti con il 76% dei consensi nel 2007, restò in carica 16 mesi: se ne andò dopo le sconfitte elettorali alle politiche del 2008 e alle regionali 2009.
Bisognerà vedere quanto ancora i leader della minoranza dem, che in questa gara elettorale hanno preferito defilarsi o esprimersi in tono minore, penso a Franceschini, Emiliano e Orlando prima di tutti, sono disposti a ingoiare prima di far saltare il tavolo. Certo, conoscendo l' abilità di Renzi a rivoltare le frittate in suo favore, dovremo capire quale è il limite dell' asticella per giudicare se il risultato del voto si potrà considerare disastro, flessione, onorevole sconfitta o perfino successo, a dispetto dei sondaggi. In questi casi, tutto è relativo. Lo è di più quando il protagonista è un prestigiatore come l' ex premier. Abbiamo già assistito in passato a manipolazioni della realtà, prima fra tutte la promessa - mai mantenuta - di lasciare la politica nel caso di sconfitta nel referendum.
C' è un altissimo tasso di imprevedibilità con cui bisogna fare i conti. La parola d' ordine è negare. Negare anche l' evidenza. Negare l' interessamento di Maria Elena Boschi con Ghizzoni per l' acquisizione di Banca Etruria da parte di Unicredit, anche se Ghizzoni conferma davanti alla commissione parlamentare. Negare l' abuso del permesso per girare in tutte le zone a traffico limitato di Firenze, rilasciato dal Comune alla moglie, giustificandolo con l' accesso al garage vicino all' abitazione, anche se in un documento scritto e firmato dalla società che rilascia le autorizzazioni si parla espressamente motivi di «sicurezza e istituzionali». Che siano presunti o reali, non è esattamente la stessa cosa.Negare e minacciare querele, a prescindere.
Al netto di questa imprevedibilità, è facile prevedere che la sinistra si troverà di fronte a un' altra svolta. Ovviamente non ci sono le prove e nessuno potrà mai confessarlo, ma la sensazione è che l' opposizione interna faccia un discreto tifo contro il Pd.
Un esempio: per quanto sia una persona seria, corretta e rigorosa, mi rimane difficile pensare che uno come Gianni Cuperlo, di fatto obbligato a non ricandidarsi (lo avevano mandato in un collegio improponibile) ed estromesso dal renzismo in tutte le sue forme, vada a votare gioiosamente per il Pd. E con lui tanti altri, mortificati dalla prepotenza nella composizione delle liste. Allora, lo scenario appena descritto non può che portare la sinistra vera - ex Pci, ex Pds, ex Ds, e gli ultimi mohicani del Pd - a prepararsi per una nuova scissione, sempre che Renzi non li anticipi. Un' altra diaspora, a oggi, sembra politicamente e tecnicamente inevitabile.
Se Renzi non dovesse arretrare nemmeno di fronte a una batosta elettorale, a un pezzo del Partito democratico e ai neo fuoriusciti toccherà un percorso spericolato come quello che toccò al Pci dopo lo strappo di Occhetto alla Bolognina. Ricordate? Generò la «cosa rossa» e che poi prese la forma di un partito destinato a cambiare tre volte nome e simbolo in 15 anni. Dopo aver conservato fondamentalmente lo stesso, Partito comunista italiano con falce e martello, per 70.
Che l' abbia fatto scientemente o gli sia venuto per caso, Matteo Renzi ha smantellato la sinistra e la sua storia.
Ha approfittato della fede di tanti figli del proletariato, trasferendo le loro forze nel corpo dei padri del capitalismo. Sul Web gira una foto nella quale si mettono a confronto le immagini di Enrico Berlinguer circondato dagli operai di una fabbrica e di Renzi a braccetto con Marchionne e John Elkann.
Il problema è che Renzi, alla fine, ha mostrato di avere una sbagliata concezione del potere, se ne sono accorti anche nelle Case del popolo, che pure lo avevano accolto perché rappresentava il partito, e il partito - soprattutto in Toscana ed Emilia Romagna - non si discuteva. Ora servirebbe una politica dove torni il pensiero, però non è la politica che abbiamo ascoltato in queste settimane, nelle quali Renzi era piuttosto «En marche!» verso altre direzioni. In lui, molti orfani dell' antico partito ancora riponevano briciole di speranze. La risposta sono state solo parole.
Nella lettera elettorale che ha inviato a casa delle famiglie fiorentine del suo collegio, dopo essersi attribuito il merito di aver realizzato le tramvie, che in 4 anni da sindaco ha invece accantonato, ha scritto: «Sono qui per chiedervi con umiltà e coraggio il voto. A chi mi chiede "Che farai da grande? Quali obiettivi hai?", rispondo innanzitutto, semplicemente: "Voglio rappresentare Firenze, Scandicci, Signa, Lastra a Signa, Impruneta. Sappiate che per me è un onore"». Domenica sera verificheremo quanti sono rimasti ad avere ancora fiducia nelle sue nobili promesse. E capiremo se, «da grande», Renzi sarà ancora segretario del Pd o padrone del PdR.
renzi alla festa per i dieci anni del pd ORLANDO E FRANCESCHINI