Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” - Estratti
Se il linguaggio è lo specchio dell’anima, ecco che la memoria, la coscienza e la coerenza del vicepremier Salvini sono materia dinanzi a cui ogni possibile giudizio si deve arrestare rimanendo impigliato tra sghignazzi e sconforto, stupore e indifferenza.
Così l’uomo che ieri ha commentato i fatti di Bologna chiamando in causa «zecche rosse, comunisti e criminali dei centri sociali» si vantò di essere pervenuto alla Lega dal Leoncavallo, portava l’orecchino in segno di rivolta e alle elezioni farlocche inventate da Bossi nell’autunno 1997 si presentò con la lista dei Comunisti padani, che nel simbolo recava una falce e martello rossi in campo bianco — e venne anche eletto al Parlamento, pure fasullo, di Chignolo Po.
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Ciò che colpisce nelle parole di un uomo di governo, per quanto precocemente travestito, è il ricorso e insieme il ritorno a qualcosa che sembrava superato: l’insulto ideologico, “zecca”, “comunista”, in assenza di ideologie. Anche a sinistra, d’altra parte, un giorno sì e l’altro no si grida al fascismo; nei giorni scorsi Schlein ha evocato l’olio di ricino, ieri il sindaco Lepore le camicie nere, e in effetti in qualche video bolognese si sono visti dei più che boomer che in piazza intonavano vecchie canzonacce rivendicando orbace e manganello.
Come al solito non è facile capire cosa sta accadendo se pure Trump l’altro giorno ha fatto appello al voto contro il comunismo, mentre i democratici gli attribuiscono simpatie nazi-fasciste. Si va per approssimazioni e semplificazioni. Almeno in teoria, tra svolte e ripudi, la Bolognina di Occhetto e la Predappina di Fini avrebbero dovuto seppellire non solo le vetuste categorie novecentesche, ma anche l’armamentario di beghe che si tiravano appresso.
Ogni tanto, è vero, specie sotto elezioni qualcuno tornava a sbraitare di fascisti e comunisti, ma la reciproca ingiunzione palesemente rispondeva a un’esigenza di marketing, di brand positioning e soprattutto di faccia tosta. Da questo punto di vista ancora una volta tocca riconoscere il primato imperiale di Berlusconi che puntualmente lanciava l’anatema contro i “cumunisti” — con forte accento lombardo suonava la fatidica locuzione — però anche con l’aria di chi non ci credeva poi tanto.
E infatti qualche risata in tema concedeva al suo pubblico: una volta, infastidito sul palco da una zanzara, la qualificò “cumunista” e allo stesso modo una pedana su cui era inciampato rovinando a terra. Ma pure qui: non pochi a sinistra pensavano che il Cavaliere fosse l’erede del duce, salvo poi trasferire tale eredità ad altri, tipo Renzi.
Ma allora? Allora tutto e allora niente. A occhio nudo la politica è largamente decomposta, si ondeggia fra il degrado del discorso pubblico e un ritorno agli anni 70, con la nota aggravante della storia che si ripresenta in forma di stanca e buffa parodia. Fra i due estremi sarebbe perfino consolante ricordare che Salvini aveva un conticino aperto con i centri sociali bolognesi che nel 2017 l’avevano preso a sputi e lui, ex leoncavallino o meno, pure in quel caso aveva invocato l’uso di diserbanti e topicidi.
Il sospetto è che la notte della democrazia e il deserto di ideali e progetti abbiano tolto di bocca alla politica le parole della novità, della fantasia, della vita reale. Fascismo e comunismo, dunque, come pigro automatismo, balbettio obsoleto, l’usato erroneamente sicuro e in realtà pericoloso. Fascismo e comunismo in mancanza di meglio.