Massimiliano Panarari per “la Stampa”
Non si va contro lo spirito dei tempi. E, dunque, il fascino (trasversale) della politica pop si fa irresistibile anche presso la sinistra radicale. Prendiamo l’ex ministro greco delle Finanze Yanis Varoufakis, una delle icone dell’Internazionale radical contemporanea, ma anche un personaggio da jet set che non disdegna le cronache mondane.
Ci eravamo abituati a vedere i leader delle neo-sinistre postmoderne rigorosamente scravattati, ma la bizzarra camicia sfoggiata da Varoufakis (che si è meritata gli sfottò del premier Alexis Tsipras) è davvero uno scatto in avanti. Per non arrestare la spinta propulsiva (di un politico o di un partito) servono iniezioni crescenti di comunicazione. E la lezione si sta diffondendo anche nella sinistra anti-neoliberista che, persa da tempo la diversità antropologica, ora si allinea sulla centralità del look.
A un certo punto, nella sinistra rossa, si è affacciata una generazione di politici che sembravano non vergognarsi più di essere dei gaudenti e dei bon vivant, e avevano smesso di nascondere quelli che potevano sembrare dei cedimenti all’edonismo consumistico.
Aveva cominciato Oskar Lafontaine, già guida dell’ala massimalista della Spd e poi cofondatore della Linke, appassionato di vini pregiati ed esponente della cosiddetta Toskana Fraktion (la corrente di politici e intellettuali progressisti che possedevano un casale tra le colline toscane). A difendere dagli attacchi l’amico Lafontaine si eresse non a caso, nella sinistra dura e pura di casa nostra, Fausto Bertinotti, molto corteggiato da «Chi» (il settimanale che ha trasformato il gossip in arma di battaglia politica), a sua volta oggetto di rampogne per la frequentazione dei salotti romani.
Ora, però, assistiamo a un autentico salto di qualità, perché le nuove sinistre-sinistre dimostrano di conoscere molto bene le regole per la costruzione del consenso stabilite dalla campagna elettorale permanente di questi nostri decenni. Che prevedono una narrazione, lo storytelling, la personalizzazione, una comunicazione basata sulla cultura pop e un’attenzione incessante al look. Precisamente tutto ciò su cui la sinistra intransigente scagliava, fino a poco fa, i suoi anatemi più severi.
E, tuttavia, come si farebbe a bucare il video (tanto di una televisione generalista che di una web tv) senza il «look giusto», propedeutico alla costruzione di un «carattere» e di un «personaggio»? Come conferma il capo carismatico di Podemos Pablo Iglesias (soprannominato, a proposito di apparenza, el coleta, «il Codino»), che si è fatto le ossa proprio come conduttore televisivo di successo.
Il modello del «politico come celebrità» ha sfondato quindi anche nell’estrema sinistra (e perfino nel sindacato, un tempo più fordista di Ford, di Maurizio Landini).
È il postmoderno, bellezza! Nel quale si è affermato il fenomeno della pipolisation, che vede i politici simili a figure dello star system e i rotocalchi e le trasmissioni popolari raccontare a più riprese momenti e aspetti della loro sfera privata (la cosiddetta «politica dell’intimità», indagata in Italia dagli studiosi raccolti intorno alla rivista e al sito di ComPol).
Varoufakis e Iglesias sono allora, al tempo stesso, due accademici e due attori della società dello spettacolo politico, tra giubbotti di pelle, moto di grossa cilindrata, e l’ostentazione pubblica delle loro relazioni sentimentali. Perché questo, per l’appunto, non è più (o non soltanto) il narcisismo tipico degli uomini pubblici, ma un modo postmoderno di fare politica, per cui anche nella sinistra radicale la rappresentazione diventa fondamentale quanto la rappresentanza (sociale).
Che, peraltro, si rivela complicatissima e difficile da perseguire, mentre la conquista del consenso passa sempre di più per temi pop, come il no alla movida di Ada Colau a Barcellona oppure l’introduzione dell’obbligo di siesta o lo stop alla corrida rivendicati dalle sindache e dai sindaci indignados eletti nelle coalizioni di sinistra egemonizzate da Podemos. Così il cerchio si chiude, e la metamorfosi risulta completa. E, a ben pensarci, non poteva essere altrimenti se, quando era ancora al suo debutto, la società dell’immagine è riuscita a trasformare in icona-personaggio perfino Che Guevara.