matteo salvini ph luca santese e marco p valli
Annalisa Cuzzocrea per “D - la Repubblica”
E se non fosse più tempo di marketing? Di corpi buoni per riempire le piazze e mettersi in posa per i selfie, ma meno attrattivi quando c’è da decidere chi deve guidare la tua città, o pulire il tuo quartiere? Le ultime elezioni amministrative hanno segnato un arretramento pressoché totale dei populisti.
E l’avanzata di leader che – non fosse per il timore di offenderli – non si esiterebbe a definire noiosi. Quelli che non si inventano i giochi social acchiappalike (utili anche per “rubare” i dati degli elettori).
Quelli che rifuggono da meme, balletti TikTok, gadget personalizzati, per tornare al porta a porta, agli incontri nelle piccole piazze, a un radicamento sul territorio che prescinde dalle piattaforme informatiche, o in ogni modo le supera.
giorgia meloni ph luca santese e marco p valli
Non si tratta solo di Enrico Letta a Siena o Gaetano Manfredi a Napoli. Di Beppe Sala a Milano e Matteo Lepore a Bologna. È un vento che pare soffiare più forte e, se fosse generoso, porterebbe via il troppo marketing che negli ultimi anni ha circondato, e soffocato, una politica a corto di idee. Per non dire di ideali.
Ricapitolando, perché ne abbiamo viste tante: ha cominciato la Bestia social della Lega con il VinciSalvini: più velocemente mettevi like ai suoi post, più possibilità avevi di vincere un regalo, una telefonata, addirittura un incontro. Come si faceva con le miss America degli anni ’60 e suppergiù – in quanto a modernità – siamo rimasti lì.
Già prima, però, l’ossessione dei selfie che ha invaso qualsiasi piazza politica aveva reso evidente che il “corpo” del candidato non era più uno degli elementi della scena, ma l’unico rimasto. Un concetto estremizzato a tal punto che, nell’estate del 2019, Matteo Salvini è arrivato a esporlo nelle spiagge, in costume e col mohito in mano.
giuseppe conte ph luca santese e marco p valli
Per farsi rispondere dalla renziana Maria Elena Boschi con gli stessi mezzi: per replicare a un attacco, in pieno agosto, l’ex ministra delle Riforme pensa bene di mostrarsi in bikini rosa con alcune amiche e twitta: “Un saluto a tutti dal mio sarcofago”.
Durante il giro che fece contro il referendum costituzionale di Matteo Renzi, l’allora M5S Alessandro Di Battista riempiva le piazze di signore che gli portavano da mangiare, lo vedevano smagrito, si preoccupavano della sua salute. Nel tour che ha fatto questo settembre, il neopresidente M5S Giuseppe Conte ha suscitato entusiasmi ancora maggiori davanti a platee sempre più folte, soprattutto al Sud. Solo che stavolta non è servito.
Quel tifo e quell’euforia non si sono trasformati in voti per il Movimento, come se a un tratto corpo e partito – almeno nel caso del M5S – si fossero scollati. Eppure, aveva sempre funzionato. Con la nuotata di Beppe Grillo che con Gianroberto Casaleggio, su una barca a fargli coraggio, aveva attraversato tutto lo Stretto di Messina, portando a un pieno di voti in Sicilia prima ancora dell’arrivo in Parlamento.
Maria Elena Boschi, bikini rosa in spiaggia a Marina di Pietrasanta
Con l’ex comico e fondatore del M5S che – in una manifestazione a tratti blasfema – aveva dato come un’ostia ai suoi eletti-adepti dei grilli essiccati. “Questo è il mio corpo”. E loro li avevano presi (tranne l’allora consigliera comunale, poi sindaca di Torino, Chiara Appendino: “Allatto, non posso”, aveva detto schifata, riuscendo a farsi saltare).
matteo lepore gaetano manfredi
C’è stata l’ordalia dei social, delle dirette Instagram, della sindaca risponde (Raggi), ma anche del Matteo risponde (Renzi). Ci sono le penne, le sporte di stoffa personalizzate, le magliette (ferro e piuma, quella pensata da Carlo Calenda per la sua campagna elettorale romana, evocando la frase verdoniana: “Questa mano po’ esse fero e po’ esse piuma”).
fan leghiste ph luca santese e marco p valli
Ci sono le foto dei cibi di tutto il Paese (sempre Salvini), ma ci sono stati anche i cani (dal Dudù di Berlusconi a quello messo in braccio a un imbarazzato Mario Monti da Daria Bignardi). Ci sono state le ampolle, il Dio Po, la Lega dei simboli celtici ora dimenticata. E però, quel che pare oggi è che il marketing della politica cominci ad avere i suoi primi veri inciampi, dopo aver mietuto i più grandi successi.
La bestia social della Lega ha fatto raddoppiare i consensi di quel partito inventando nuovi nemici (non più il Sud e Roma ladrona, ma gli immigrati e i “radical chic”) e rendendo virali messaggi d’odio attraverso filmati manipolati o uscite estemporanee (ricordate Salvini al citofono in un quartiere di Bologna?). Poi però si è inceppata sulla caduta del suo ideatore, Luca Morisi. E tutta l’ipocrisia che serviva a generarla la sta come logorando dall’interno.
Giorgia Meloni ha la furbizia e l’ironia necessarie per girare a suo favore gli attacchi che le vengono rivolti. Le danno della “pesciarola” (traduzione dal romanesco: pescivendola) per il tono di voce, e lei si butta in un mercato a difendere la dignità dei pescivendoli. Fanno un rap satirico dei suoi comizi “io sono Giorgia”, e lei intitola così un libro che vende tantissimo ancor prima di finire tra gli scaffali.
Mettendoci dentro tutto quello che può davvero avvicinarla agli elettori: la vita senza il padre, la madre che non ha abortito, la scoperta della maternità e del maschilismo, l’amore per il compagno, i sensi di colpa verso la figlia. Se stessa o quel che di sé vuole mostrare, insomma. Lasciando che per una volta il posto del corpo lo prenda la parola scritta. Senza nulla che somigli a una riflessione vera sulle radici del suo partito, una presa di distanza dal fascismo nella storia d’Italia. Niente. Solo qualche pasticciata rievocazione di come sarebbe nato il razzismo (“non l’hanno inventato i regimi nazifascisti”) e di com’è ben strano che il fascismo si sia macchiato delle leggi razziali, “malgrado fossero ebrei molti dei protagonisti dell’ascesa di Mussolini”.
matteo renzi ph luca santese e marco p valli
Successo di vendite, un po’ meno nelle urne per i suoi candidati. Anche lì, il personaggio e il politico non sembrano andare allineati. Almeno per ora. Enrico Letta ha fatto un libro anche lui, Anima e cacciavite, uscito nei giorni in cui accettava di diventare segretario del Pd dopo il passo indietro furioso di Nicola Zingaretti.
Niente autobiografismo: idee per la sinistra del futuro che però, per una volta, fanno discutere almeno quanto i ricordi di infanzia di Meloni (sebbene vendano meno). Una per tutte, la dote per i diciottenni per permettere a tutti di cercare la propria strada. Non fa in tempo a lanciarla, Letta, che un Paese incattivito gliene dice di tutti i colori.
A finanziarla servirebbe un aumento della tassa di successione per gli ultramilionari. Eresia. A lungo i guru della comunicazione hanno spiegato che così si andava a sbattere, che non c’è pathos, non c’è spettacolo, in un leader che fa un libro per lanciare idee. E però – alle comunali e alle suppletive di Siena – ha pagato più dei concorsi e delle lezioni di autodifesa alle manifestazioni della destra (è successo anche questo, in una piazza romana per il candidato Enrico Michetti).
Non è una garanzia per le politiche, il consenso è ormai labile e scritto sulla sabbia. È il segnale, però, che qualcosa si è rotto tra i populisti e il Paese. Che i personalismi arretrano e gli avventurismi pure, perché i temi sono seri: ci sono stati i morti del Covid, la solitudine, i malati, il Paese in ginocchio e ora – forse - in ripresa.
Il giocattolo della demagogia si è rotto e non c’è strategia comunicativa che possa coprire la mancanza di idee nuove, le divisioni interne, gli odi intestini, le richieste altalenanti a un governo che procede come se il circo dei partiti che gli sta intorno non esistesse. Non è più il tempo della bestia e non è più il tempo delle lotterie. Non è il tempo in cui i politici “si provano” in chiave antisistema, perché la rabbia per quello che è venuto prima prevale su tutto. Non è il tempo in cui basta uno slogan azzeccato, se dietro non esiste sostanza e non esiste messaggio. Non è finito il marketing della politica, ma è forse finito il tempo del marketing senza politica. O almeno, questo, è lecito sperare.
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