Massimo Gaggi per il "Corriere della Sera"
Colpita dai siluri di Donald Trump che da anni accusa gli organi di stampa di essere i «nemici del popolo», appesantita dai sondaggi dai quali emerge una perdita di fiducia dei cittadini nelle istituzioni politiche che coinvolge anche i giornali, la corazzata dell'informazione Usa, il New York Times, sopravvive all'attacco di Sarah Palin: attacco insidioso, anche se lanciato da un personaggio considerato una figura folkloristica, più che un politico di sostanza.
Al termine di un processo che ha fatto notizia più che per il dibattimento, per le intemperanze della ex governatrice dell'Alaska (ed ex candidata alla vicepresidenza nel ticket del 2008 con John McCain) che a New York, positiva al coronavirus, ha continuato a girare per ristoranti, la giuria del tribunale di Manhattan ha assolto il quotidiano dall'accusa di diffamazione nei confronti della Palin un giorno dopo una singolare (ma legale) sortita di un giudice distrettuale federale che aveva giudicato comunque infondato il procedimento giudiziario a causa dell'inconsistenza degli argomenti dell'accusa.
Il caso risale al 2017, quando il Times citò una vecchia pubblicità elettorale della Palin presentandola erroneamente come un invito a mettere nel mirino alcuni politici. Nell'articolo si sosteneva che quella pubblicità aveva influenzato il killer di un massacro avvenuto in Arizona nel 2011, nel quale fu ferita la deputata Gabby Giffords.
Non era così: il quotidiano se ne rese conto poche ore dopo e ritirò subito l'articolo scusandosi per l'errore. La Palin denunciò ugualmente il giornale: il tribunale le diede torto ma lei fece ricorso e la corte d'Appello nel 2019 lo accolse aprendo la strada al processo che si è concluso ieri.
In America la stampa gode di una robusta protezione grazie a una sentenza della Corte Suprema del 1964 (New York Times contro Sullivan) in base alla quale si può essere condannati per diffamazione solo se è dimostrata la consapevolezza da parte del giornale di aver pubblicato il falso. Ci vuole, insomma, la prova della malafede.
Grazie a queste tutele il Times non perde una causa da quasi mezzo secolo: un record che ha resistito anche all'assalto della Palin che poteva diventare l'occasione per un ridimensionamento delle garanzie che Trump aveva minacciato di smantellare (senza tuttavia intervenire, da presidente, con iniziative legislative).
Caso chiuso? Non proprio. La Palin ha già annunciato un altro ricorso. Perderà di nuovo, ma il suo obiettivo è quello di continuare a fare notizia e di tenere alta l'attenzione sulla questione della credibilità della stampa.
Oggi, in un clima assai diverso dagli anni del Watergate, quando i giornali erano visti come un baluardo della democrazia da quasi tutti, sono in tanti (compresi almeno due dei nove giudici della Corte Suprema) a considerare troppo ampie le garanzie concesse ai giornalisti nel 1964.
Non sarà Sarah Palin a provocare una revisione di quella sentenza, ma, con una Corte ormai ad ampia maggioranza conservatrice, si avvicina il momento di un cambio di rotta.
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