Giacomo Amadori per "la Verità"
L' avvocato e faccendiere Piero Amara dal 2018 riempie di chiamate in correità le cancellerie delle Procure di mezza Italia. Nei mesi scorsi ha patteggiato a Messina e Roma pene per corruzione in atti giudiziari e frode fiscale, ma non riesce a liberarsi del giogo da imputato.
Sperava di farlo vestendo i panni del pentito professionista, ma il piano sembra definitivamente naufragato da quando è esploso il caso da lui sollevato della fantomatica loggia Ungheria, un presunto centro di potere deviato.
Probabilmente il nostro si immaginava già sotto l' ombrellone a Dubai a godersi i milioni di euro guadagnati in operazioni spericolate, che le Procure di Roma e Milano non gli hanno mai sequestrato, forse pensando di preservare in questo modo il loro testimone dalle dichiarazioni d' oro.
Amara nel 2019 era finito nel mirino del pm Stefano Fava, il quale, nel febbraio di quell' anno, aveva deciso di chiederne nuovamente l' arresto e il sequestro di 25 milioni di euro arrivati a una società, la Napag Srl, riconducibile ad Amara, mentre lui era in prigione.
Nella richiesta di misure cautelari, poi bocciate dal procuratore Giuseppe Pignatone, erano inseriti anche l' amministratore della Napag, F.M. e una dipendente della società (già impiegata di Amara), nipote di un dirigente dell' Eni. L' aggiunto Paolo Ielo spiegò così la bocciatura della richiesta: «Ricordiamoci che dobbiamo affrontare un dibattimento con Amara teste di accusa []. In questo contesto una misura cautelare per Amara mi sembra un atto che ci indebolirebbe».
Il 18 marzo Pignatone, Ielo e l' aggiunto Rodolfo Sabelli tolgono il fascicolo a Fava e lo trasferiscono per competenza territoriale a Milano, dove viene assegnato all' aggiunto Laura Pedio e al pm Paolo Storari.
Ma anche qui aggiunti e sostituto arrivano a determinazioni opposte: Storari, dopo qualche tempo, secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, sarebbe giunto alle stesse conclusioni cui era pervenuto Fava, vale a dire che Amara andava arrestato, quanto meno per calunnia.
I dirigenti del suo ufficio, Francesco Greco, Pedio e Fabio De Pasquale, invece, decidono di utilizzare Amara contro il giudice del processo Eni-Nigeria, Marco Tremolada, e questo segna la rottura con Storari. Il quale, nell' aprile del 2020, prende i verbali di Amara e li consegna al consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Intanto il tesoro di Amara resta al sicuro, molto probabilmente a Dubai, perché nessuno, pare, ne avrebbe mai chiesto il sequestro.
Per Fava e la Procura di Milano (per lo meno questo si evince da un decreto di perquisizione emesso nel maggio del 2019) Amara sarebbe, come detto, socio occulto della Napag, una piccola ditta calabrese, fondata nel 2012 a Gioia Tauro per commerciare in succhi di frutta, ma passata improvvisamente, nel 2017, agli affari petroliferi.
Il consulente che la porta nel magico mondo dell' oro nero è l' allora avvocato esterno dell' Eni Amara. Da quel momento la Napag guadagna soldi a palate grazie agli affari con la Eni trading & shipping (Ets), una controllata del Cane a sei zampe. Il contatto di Amara & c. era il responsabile «products trading» Alessandro Des Dorides, successivamente licenziato e denunciato per truffa dalla compagnia petrolifera.
Il 2 febbraio 2018, quattro giorni prima di essere arrestato, Amara conclude un contratto di locazione per un appartamento romano, piano attico, dove viene trasferita la sede legale della Napag, sino a quel momento ospitata nel suo studio.
A partire dall' aprile di quell' anno, la società calabrese incassa dall' Eni quasi 95 milioni di euro, suddivisi in otto bonifici per tre forniture di greggio e derivati del petrolio come il polietilene ad alta densità (25 milioni di euro), operazione che avrebbe consentito alla Napag di acquistare un impianto di produzione di polietilene in Iran, due carichi di Virgin nafta (29 milioni di euro), un ulteriore carico di greggio (42 milioni), di cui parleremo tra poco.
Successivamente l' Eni scopre e denuncia che questa merce, ufficialmente irachena, avrebbe avuto in gran parte «qualità e provenienza diversa rispetto a quella contrattualizzata, anche con la produzione di documenti rivelatisi falsi». Infatti, come si scoprirà successivamente, giungeva dall' Iran, Paese sottoposto a embargo statunitense.
Ma vediamo nel dettaglio i bonifici che arrivano dopo che Amara è già finito in carcere. Il 24 aprile, perviene alla Napag un «prepagamento» di oltre 25 milioni, soldi accreditati sul conto della banca Mediolanum, filiale di Basiglio (Milano). Da luglio a dicembre partono altri sette bonifici per un importo complessivo di quasi 70 milioni di euro, quasi tutti inviati su un conto di Dubai (a parte 1,3 milioni destinati a Bruxelles).
Ma i dirigenti dell' Eni scoprono, anche grazie a indagini difensive, l' esistenza di un conto persino a Ras Al Kaimah, altro piccolo emirato. Alla fine, la Napag incassa 94.295.682,62 in tutto. Denaro, secondo gli inquirenti, destinato non solo al titolare, M., ma anche ad Amara.
Se però i conti non risultano essere stati bloccati, non sembra sia mai stato sequestrato neanche il carico della petroliera White moon. Con la denuncia depositata alla Procura di Milano il 13 giugno 2019, l' Eni ha segnalato all' aggiunto Pedio che la nave giunta «in prossimità del porto di Milazzo» non aveva a bordo greggio di provenienza irachena, come dichiarato dalla venditrice nigeriana Oando, ma di «qualità superiore e più pregiata».
L' Eni segnalava inoltre che il petrolio doveva «considerarsi in deposito stoccato presso la motonave White moon». Quasi un assist per ordinarne il sequestro. Nella denuncia si leggeva anche che era stata accertata la falsificazione della documentazione di accompagnamento del carico e che, attraverso una schermatura, la reale procacciatrice del prodotto era la Napag, che nel febbraio dello stesso anno era stata estromessa dall' elenco dei fornitori dell' Eni a causa degli affari opachi con Ets.
L' Eni segnalava anche la reticenza della Oando a dichiarare la vera provenienza del greggio e depositava in Procura la fattura da oltre 41 milioni di euro pagati dalla Oando alla Napag. Il 15 luglio la compagnia petrolifera denunciava espressamente Amara e M. quali titolari della Napag, fornitrice di un petrolio diverso da quello pattuito.
Infine l' Eni, il 26 luglio 2019, presentava un' ulteriore denuncia, allegando la documentazione contraffatta, fornita a riprova della provenienza irachena del greggio. Già a partire dal 13 giugno 2019, i giornali avevano svelato l' origine provenienza iraniana del petrolio.
Nonostante tutte queste sollecitazioni, la Procura di Milano non ha fatto sequestrare la nave e ha lasciato che tornasse indietro con a bordo il petrolio iraniano commerciato da Amara. Il quale, da lì a qualche settimana, avrebbe cominciato a riempire nove verbali di confessioni, come nemmeno Sant' Agostino.
Nell' interrogatorio del 31 luglio 2018, Giuseppe Calafiore aveva detto ai pm quali fossero le «scatole» estere aperte da Amara per i suoi affari: oltre alla Dagi Middle East, l' avvocato siracusano aveva fondato, insieme con M, la Napag Dubai, dove secondo il faccendiere avrebbero dovuto transitare anche le mazzette destinate ad alcuni dirigenti corrotti dell' Eni (oggi tutti allontanati).
Nei verbali depositati al Riesame, Amara parla di ogni genere di business, compreso l' olio di palma, ma non dei soldi guadagnati con la Napag. E se lo ha fatto, quelle parti sono state omissate.
Nelle carte giudiziarie compare anche un estratto conto del faccendiere risalente ai tempi in cui truccava i processi. Un elenco di spese che la dice sulla lunga sul tenore di vita di questo avvocato.
Nel mese di maggio del 2016 ha speso 18.500 euro strisciando 700 euro al ristorante milanese La Langosteria, specializzato in prelibati crudi di pesce, 414 nel negozio d' abbigliamento Boggi, 650, 530 e 260 nella tipica osteria chic romana da Tullio, 357, 320 e 212 alla pescheria Rossini, 471 all' hotel Bulgari, 535 al Majestic, 403 al Parco dei Principi, 2.400 nella boutique Celine, 596 alla Rinascente, 316 da Luisa Spagnoli e 299 da Max & co. e persino 700 per un taxi.
Adesso il «massone» pentito, che con la sua loggia Ungheria sta facendo fibrillare il mondo della magistratura italiana, è in attesa di tornare a vivere alla grande con i soldi guadagnati con corruzione e petrolio, denaro che nessuno gli ha mai portato via. A meno che qualche magistrato, finalmente, non decida di cercare e sequestrare il tesoretto della Napag.
Se non è già troppo tardi.