Carmelo Lopapa per la Repubblica
È l’unica, vera scelta politica compiuta a sorpresa dal neonato governo Gentiloni. Fuori Denis Verdini con Ala, fuori Scelta civica e il suo viceministro Enrico Zanetti. «Vedrete, saremo più solidi senza Verdini che con lui dentro », dice il premier rassicurando i big pd al termine di una giornata frenetica culminata con giuramento e il primo cdm. Due sigle, un unico gruppo parlamentare da 18 senatori e 16 deputati, truppa diventata “zavorra” che ha pesato sul governo Renzi, ha dilatato la ferita interna al Pd, causato l’emorragia di voti a sinistra.
Lunghe trattative, poi la scelta finale di dire no a un ministro verdiniano. Ed è rottura. «Stanno facendo di tutto per avere Saverio Romano nell’esecutivo ma non c’è storia», era trapelato ore prima da chi conduceva le trattative per Palazzo Chigi. L’uomo della discordia è il ministro all’Agricoltura dell’ultimo governo Berlusconi, palermitano, ex braccio destro di Cuffaro in Sicilia. L’unica concessione che Gentiloni può fare, è l’offerta dei pontieri, è la conferma di Zanetti alla poltrona di viceministro all’Economia. «Non vedo perché dobbiamo metterci la faccia se delle nostre facce si vergognano, si tengano la sinistra pd e si facciano garantire da loro la maggioranza, noi stiamo fuori», tuona Verdini quando alle 18 arringa la pattuglia dei suoi onorevoli convocati di fretta nella sede di Via Poli, a due passi da Palazzo Chigi. Quindi, parte la telefonata in viva voce al segretario del Pd, Renzi, che però si tira fuori, non è più lui il premier. Proteste. Tutto inutile.
La nota congiunta con Zanetti è la dichiarazione di guerra. «Avevamo dato la nostra disponibilità, ma nasce un governo fotocopia per mantenere lo status quo, non voteremo la fiducia» c’è scritto. Saverio Romano, parte in causa, appena finita la riunione serale è coi nervi a fior di pelle: «Chiedevamo un governo asciutto con una base parlamentare allargata, hanno allargato il governo per accontentare le correnti pd e si sono ritrovati una maggioranza traballante». Ponti saltati, al momento. Ma la partita è davvero chiusa?
«Chiaro che la scelta di tenerli fuori è politica», commenta il neo ministro Luca Lotti con i renziani che gli chiedono lumi, essendo stato lui nell’ultimo anno il trait d’unione tra Verdini e Palazzo Chigi. «Ma con Denis torneremo a parlare e reggeremo botta al Senato», tranquillizza l’uomo forte di Renzi al governo. La sensazione diffusa al quartier generale dell’ex premier è che alla fine un esecutivo appeso ai numeri, esposto alle “intemperie”, non sia proprio un male. La probabilità di chiudere i battenti nel giro di sei mesi si fa più concreta, in qualunque momento Matteo Renzi potrebbe staccare la spina.
Già, perché con la truppa di Verdini fuori, il pallottoliere del nuovo governo a Palazzo Madama vacilla, anche se per il momento regge di una manciata di voti. Può contare sui 112 senatori Pd, i 29 di Ap di Alfano, i 15 delle Autonomie e i 9 tra gruppo Misto e Gal: fanno 165, ai quali con tutte le incognite del caso (le presenze) vanno aggiunti i 4 senatori a vita. Solo così si raggiungerebbe quota169, qualcosa in più dei 161, soglia di sopravvivenza. I 6 tra senatori di Tosi ed ex Sel già al fianco di Renzi potrebbero affiancarsi.
Gentiloni rischia di ballare, il capogruppo pd Zanda dice di no: «Fiducia senza incertezze ». Uscito di scena per ora Verdini, in Fi invece le antenne si drizzano. La tentazione di tornare centrali è tanta. «Opposizione, ma notiamo un cambiamento di toni», sostiene Paolo Romani. Per l’intera mattinata, raccontano, Gianni Letta ha insistito con Silvio Berlusconi per sostenere un clamoroso e “utile” sostegno esterno, quanto meno la «non belligeranza» al governo. Il Cavaliere per ora resiste, ma non è detto che d’ora in poi - quando la maggioranza dovesse andare in affanno - tutti i 42 senatori forzisti saranno in aula.