Dino Martirano per il “Corriere della Sera”
A 24 giorni dall' ipotetico approdo della legge elettorale in aula alla Camera, fissato per il 27 febbraio, i partiti decidono di non decidere. E si trincerano dietro «l' attesa per le motivazioni» della sentenza della Consulta (attese tra il 7 e il 9 febbraio) per conquistare un' altra settimana da consumare in mosse tattiche. In un clima che denota scarsa lucidità strategica, e che consente solo la navigazione a vista, ora il Pd decelera e apre sul premio alla coalizione anche alla Camera, il M5S dopo l' anatema di Grillo fa l' ennesima giravolta sui capilista bloccati (sì alla Camera, no al Senato), mentre Forza Italia si compiace che il treno in corsa verso le elezioni subito stia rallentando.
L' appuntamento cruciale della giornata è stato quello dell' Ufficio di presidenza della I commissione (Affari costituzionali), il laboratorio nel quale semmai prenderà forma verrà fecondata la nuova legge elettorale. Ma il calendario veloce stabilito dal partito del voto subito (Pd, M5S, FdI, Lega) è stato smentito dalla mancata perimetrazione degli argomenti da trattare. È prevalsa la linea del rinvio - caldeggiata da presidente Mazziotti e subito sposata da Scelta civica, centristi e Forza Italia - che si è concretizzata con il rinvio al 9 febbraio per l' inizio dell' esame di tutte le proposte: Legalicum (M5S), Mattarellum (Pd), Lauricellum (Pd), sistema tedesco (Ala).
La proposta più concreta è dei grillini: «Portiamo al Senato ciò che resta dell' Italicum con il premio di maggioranza al primo partito, la doppia preferenza di genere ma non i capilista bloccati che vanno lasciati alla Camera», ha spiegato Federica Dieni (M5S) aggiungendo che «il Pd sta facendo solo melina». In realtà, fare marcia indietro sui capilista bloccati (accettandoli alla Camera e non al Senato) mette il M5S nella posizione di chi vuole sabotare l' intesa con il Pd prima ancora che si consolidi.
Così il partito del «voto subito», alla prima prova parlamentare, si è incagliato con il Pd e il M5S che si rinfacciano di non volere andare al voto. E a Pier Luigi Bersani, favorevole al voto nel 2018 a scadenza naturale, «non sembra probabile» che Renzi prenda il 40% se si vota a giugno. In serata, ospite a La7 , l' ex segretario avverte: «Se si apre il congresso non c' è nessuna possibilità che si scinda il Pd». In caso contrario «la scissione diventa molto probabile».
Emanuele Fiano (Pd), già relatore dell' Italicum e della riforma costituzionale, potrebbe ricevere il mandato di mettere insieme un testo base: «Il punto di caduta potrebbe essere il premio alla coalizione anche alla Camera, il meccanismo studiato da Lauricella per introdurre un premio al Senato, i capilista bloccati, l' armonizzazione delle soglie». In attesa che tutto questo venga messo nero su bianco, le prime e le seconde linee dei partiti si muovono freneticamente.
Massimo D' Alema, che ha suonato la carica ai suoi nel Pd per «tenersi pronti ad ogni evenienza», ha incontrato Nichi Vendola e Nicola Fratoianni suscitando scompiglio nell' area Sinistra Italiana-Sel. In Sicilia, il governatore Rosario Crocetta replica il «Megafono», che diventa «SuperMegafono», e già vede 15 seggi da deputato e uno da senatore. Al centro fa breccia il ministro Carlo Calenda («Con le elezioni a giugno il Paese rischia»): «La sua intervista è condivisibile perché riporta la discussione entro due paletti: le preoccupazioni sulla tenuta del Paese e il modo di affrontare, in questo quadro di pulsioni antisistema, il passaggio delle elezioni», ha detto Lorenzo Dellai di Democrazia solidale.