Flavio Vanetti per corriere.it
Alex Bellini, da che cosa nasce la sua voglia di estremo?
«Non è voglia di estremo, è il desiderio di conoscere e di conoscersi. Papà frequentava l’Africa in moto, io ho cominciato da lì. Poi ho aggiunto l’Alaska, gli oceani e altri luoghi capaci di far risuonare in me delle vibrazioni».
Certe imprese scatenano un appagamento intimo?
«Quello dell’ego di sicuro: nel momento in cui realizzi qualcosa di apparentemente impossibile, ne gode. L’appagamento matura quando trovi la forza di saltare nel cerchio di fuoco. Spesso mi sono scoraggiato, ho pianto, mi sono incavolato con me stesso per aver seguito questa passione. Ma se qualcosa di negativo si trasforma in una nuova speranza, ecco quello è un appagamento che genera coraggio per la vita».
Green influencer, mental coach, esploratore: i tre Alex Bellini da che cosa sono accomunati?
«Dall’aspetto psicologico. Comanda anche nella sfera green: l’uomo è consapevole della criticità dei temi ambientali, ma a causa di trappole mentali fatica ad agire. La lente della psicologia aiuta a leggere il divario tra teoria e pratica».
Terra e acqua (mari, fiumi e ghiacci): le mancano fuoco e aria.
«Quanto al fuoco, non ho ancora trovato un progetto. Nell’aria, invece, ho esperienza perché sono pilota di mongolfiere, mezzo romantico che richiama il passato. Però non volo da un po’, ci sono stati degli incidenti e mi sono fermato».
Qual è la hit parade delle sue imprese?
«Al vertice c’è la traversata dell’Atlantico a remi. Il primo tentativo fallì dopo 6 ore, nel secondo naufragai a Formentera dopo 23 giorni. Nel terzo, ripartendo da Genova, arrivai in Brasile. Al secondo posto metto la corsa Los Angeles-New York: durante la gara nacque la seconda figlia, mia moglie era in Italia a partorire. A New York completai gli ultimi metri assieme alla figlia maggiore, venuta per... accompagnarmi a casa. Infine completo il podio con la traversata dell’Alaska del 2003: ero alla ricerca di un posto nel mondo, lì capii che cosa volevo fare».
Nella traversata a remi del Pacifico s’è fermato a 65 miglia dall’Australia: una rinuncia fantozziana?
«Mi sarei sentito più sfigato se avessi fatto retromarcia il giorno dopo la partenza perché travolto dai dubbi. Mollare in vista del traguardo ha qualcosa di romantico: le storie grandiose hanno epiloghi imprevedibili. Avevo superato l’inferno, sentivo di farcela. Ma mi sbagliavo: le condizioni erano diventate pericolose. Fermarmi è stato un atto di anti-coraggio che si è trasformato nel coraggio di dire basta».
È mancata l’ultima nota di una grande sinfonia...
«L’incompletezza è stata affascinante: volevo arrivare a Sydney, ma subito dopo essermi fermato capii di aver fatto la cosa giusta. Uno sponsor non onorò l’ultima tranche del contratto, solo anni dopo saldai i debiti. Ma nemmeno quel guaio mi ha fatto pentire: gli sfigati erano quelli che parlavano di fallimento mentre io avevo percorso 18 mila chilometri, remando e “rinascendo” almeno cinque volte».
Lei dimostra che tutto è possibile?
«È difficile lavorare a qualcosa di impossibile. Ho concluso i progetti che ho elaborato, in generale dico che tutto ciò che pensiamo è possibile».
«Conosci te stesso» è scritto nel tempio di Apollo a Delfi. Ma a fianco c’è anche «Nulla di troppo». Quale delle due frasi preferisce?
«Nulla di troppo».
Umberto Pelizzari, il sub dei record, in fondo al mare sperimenta un’altra dimensione: capita anche a lei?
«Il mare riporta al ventre materno. Ha poi quella superficie semi-riflettente che permette di guardarti in faccia: il mare è una metafora dell’autoanalisi».
Ha incontrato la paura? È mai stato vicino a morire?
«Sì, ho paura e temo la morte: esorcizzo entrambe facendo l’esploratore. Prima della morte fisica c’è comunque quella spirituale: si muore se si smette di sognare. Quando ho rischiato di più?
In Islanda attraversando il Vatnajökull, il più grande ghiacciaio d’Europa. C’era il “white out”: vento, nebbia, polvere di neve che impediva di vedere bene. Mi avvicinai troppo alla bocca del vulcano, scivolai nel cratere. Cadendo, pensavo che stavo morendo da cretino. Invece atterrai su un manto morbido e riuscii a risalire. Con me c’era un fotografo, si era fermato in tempo: quando mi vide pensò di avere le allucinazioni».
Sua moglie le ha mai detto «questo non farlo»?
«Francesca cura sponsor e team di supporto, la scelta di partire è sempre di entrambi. Ma ultimamente, mentre stavo per raggiungere il Niger, mi ha detto: ho cattive sensazioni. Poiché in passato aveva visto giusto, sono rimasto a casa».
Per il 2022 ha indicato tre espressioni chiave: gentilezza, coraggio e zero lamenti. Perché?
«Durante il lockdown ho scritto un libro, “Il viaggio più bello”. Un viaggio immaginario, a tappe, in cui invitavo il lettore a rinunciare alle cose obsolete, ad ascoltare in silenzio, ad avere pazienza, a reagire alla vulnerabilità. Competenze che dobbiamo recuperare e allenare».
Che cosa ha della gente della Valtellina?
«La permalosità. E la testardaggine».
La testardaggine non è anche un pregio?
«Sì, se non si trasforma in ossessione».
Anche l’Italia sta facendo un viaggio avventuroso?
«Molto avventuroso. Siamo navigatori e coraggiosi, però ci fermiamo troppo ad analizzare e perdiamo le spinte dell’inizio».
Il mondo peraltro non scherza...
«La crisi tocca pure l’individuo. Sembriamo una matrioska: tante bamboline l’una dentro l’altra, alla fine la bambola madre rimane vuota e non capisci come ricominciare. Riparti solo se sei forte nell’animo, ma stiamo trascurando alcuni valori: oggi “abbiamo”, ma non “siamo” più. Spiego così il ritorno alla spiritualità e il successo dello yoga, rifugio di chi non è preparato».
Qual è la vera emergenza ambientale?
«Aver esiliato la natura dalla coscienza delle persone. Prendiamo il mare: l’abbiamo ridotto a un “altrove”, l’abbiamo trasformato in una pattumiera con il benestare di tutti i Paesi».
«Dieci fiumi, un oceano» è un progetto per unire l’acqua dolce a quella salata?
«È un modo per raccontare dove va la plastica, dai fiumi al mare fino a una delle tante isole-spazzatura che si incontrano negli oceani. Nel 2019 ho attraversato il Great Pacific Garbage Patch: se getti una bottiglietta nel Gange, prima o poi la ritrovi lì. Tutto è interconnesso, ce lo stiamo scordando».
Per lei il Gange è una metafora della vita.
«Prima di tutto è una contraddizione e in quanto tale diventa metafora della vita. L’indiano ha un senso di interconnessione con “l’ultra-terrestre” attraverso il Gange. Il fiume fa da vettore per la vita dopo la vita. È una contraddizione perché l’indiano lo venera come la dea generatrice. È devoto, fa purificazione, ma con l’altra mano lo rovina. Essendo però sacro, il Gange non può inquinarsi: ecco giustificato l’atteggiamento anti-ambientalista».
Sogni, passioni, idee non realizzate: qualcosa da dichiarare?
«Sono un solitario. Mi piace vivere a casa, mia moglie si lamenta della scarsa vita sociale e dice che sono noioso. Lo riconosco: ho poche amicizie, non sono molto di compagnia».
Si è mai immaginato manager in giacca e cravatta?
«No, mai. Mi piacerebbe però essere un manager per trasferire il “mindset” dell’esploratore in ambienti organizzativi».
Come fa a superare se stesso?
«Tanti me lo chiedono. La risposta è: con la necessità di colmare uno spazio nel cuore».
Ammira, o magari invidia, qualche collega?
«Due su tutti, che ammiro e basta. Il primo è Fedor Konyukhov, il prete ortodosso russo che ha completato il giro del mondo in mongolfiera in solitario e senza scalo. Il secondo è il sudafricano Mike Horn. Qualche anno fa ha raggiunto il Polo Nord durante la notte artica: mi sarebbe piaciuto essere in quella spedizione».
Se incontrasse un alieno...
«Gli chiederei il segreto della telepatia. Immagino che disponga di questa forma di intelligenza, vorrei capire come usarla. Credo di averla con mia moglie, ma non riesco a controllarla».
Con Dio come la mettiamo?
«Ho un conto in sospeso. Ho perso mia mamma nel 1999, avevo 21 anni: ho subìto un torto. In mezzo agli oceani non mi sono mai sentito così vicino a lei: mi guidava tra onde, difficoltà, cadute. Rifiuto l’Assoluto, però quando non c’è nulla in cui sperare è d’aiuto credere che Dio esista».
Ogni sconfitta genera una ripartenza o resta una sconfitta?
«Viktor Frankl, sopravvissuto ai lager nazisti e diventato psichiatra, sosteneva che nella prigionia gli avevano levato perfino l’identità. Ma non potevano togliergli l’ultima delle libertà: poter scegliere l’atteggiamento in ogni situazione. Quindi non sono le cose che ci capitano a determinare il successo o il fallimento, ma la nostra interpretazione di tali momenti. Una ripartenza è credibile a patto che ci sia la capacità di riconoscere in noi questa grande libertà umana».
Vuole entrare in una capsula di sopravvivenza attaccata a un iceberg e farsi portare per mari gelati: quando lo farà?
«Della capsula esiste un modello in scala 1 a 3. Spero di rimettere mano presto a un progetto potente e bello. L’idea di vagare tra i ghiacci simboleggia l’umanità alla deriva. Voglio comprendere le dinamiche dell’iceberg e capire, anche sul piano psicologico, come l’uomo deve adattarsi al mutare dell’ambiente circostante. Farlo costa fatica perché si rinuncia a qualcosa, ma se capisci che è a vantaggio di tutti afferri che è un modo per sopravvivere».