Antonio Monda per “la Repubblica”
Era elettrica l' aria, quella sera dell' otto marzo 1971, e i ventiduemila spettatori assiepati in ogni posto del Madison Square Garden erano talmente emozionati che esitavano persino a esultare: stavano per assistere all' incontro del secolo, e nessuno osava rompere la magia di quel momento.
Era una notte di stelle: Barbra Streisand era seduta a pochi metri da Woody Allen e dal gotha della comunità afroamericana: Diana Ross, Miles Davis e Bill Cosby. Norman Mailer lanciava in aria colpi di boxe a bordo ring, mentre Frank Sinatra scattava foto per la rivista Life. Accanto a loro Burt Lancaster, che aveva accettato di fare la telecronaca dell' incontro: non sapeva molto di boxe, ma quello era un evento epocale, che riproponeva, nel cuore del mondo, le sfide dei guerrieri del passato, e lui iniziò parlando di Achille ed Ettore.
Ma nessuna star era paragonabile ai due contendenti, entrambi imbattuti: da una parte Joe Frazier, che per molti, a cominciare da Muhammad Ali, aveva usurpato il titolo di campione, dall' altro l' uomo a cui era stato sottratto per aver rifiutato di combattere in Vietnam.
Ali aveva motivato la decisione con una battuta passata alla storia: «Nessun Vietnam mi ha mai chiamato negro», e in originale aveva detto nigger, il più infame degli epiteti razziali. Erano molti anni che aveva ripudiato il «nome da schiavo Cassius Clay» e aveva massacrato Ernie Terrell, un gigante che aveva osato chiamarlo ancora in quel modo. «Come mi chiamo?», gli aveva ripetuto dopo ogni colpo, sferrato per umiliarlo e allungare platealmente la lezione. Ed erano anni che era diventato un Musulmano Nero, facendosi immortalare con Elijah Muhammad e Malcolm X, due tra le personalità più detestate dall' America wasp.
Sapeva di essere il più grande, Ali, forse il più grande di sempre, ma sapeva ancora meglio di essere odiato da buona parte del Paese, e questo lo esortava a essere più strafottente e spietato. E sapeva di essere bellissimo: un fisico perfetto e un portamento regale che contrastavano con gli atteggiamenti clowneschi e quella frase con cui aveva inventato il rap: « float like a butterfly, sting like a bee / vola come una farfalla e pungi come un ape».
Era l' opposto del rivale in tutto, poco glamour persino nel soprannome "Smoking Joe" - basso, tarchiato e silenzioso - Joe Frazier era però implacabile e dotato di un gancio sinistro che avrebbe sfondato un muro. Fu quel colpo a fargli vincere il titolo vacante: aveva distrutto due pugili di valore come Buster Mathis e Jimmy Ellis, che Ali aveva definito "mediocrità assolute". Era un grandissimo campione, Frazier, ma Ali era un genio, che tuttavia ritornava sul ring dopo tre anni di inattività e due soli incontri di preparazione: aveva sconfitto per k.o. Jerry Quarry e Oscar Ringo Bonavena, faticando però molto più del previsto.
Il mondo intero sapeva che era stato privato dei tre anni che avrebbero rappresentato il momento di massimo fulgore: era stato infatti costretto a smettere a 26 anni, e ora si avvicinava ai 30, e nessuno gli avrebbe più ridato quella lucentezza, nonostante lui ripetesse in ogni occasione che il più grande è tale perché sfida ogni età e ogni momento della vita.
Era stato sprezzante, Ali, nei giorni che avevano preceduto il match, sconfinando anche in epiteti razzisti che solo lui poteva permettersi: definiva l' usurpatore come un "orribile scimmione" e tale era il suo carisma che nessuno aveva protestato. La storia era dalla sua parte, e Ali era riuscito come sempre a manipolare il mondo intero, facendo passare se stesso per il campione e Frazier per un abusivo.
Quando l' arbitro Arthur Mercante diede gli ultimi avvertimenti, si fissarono negli occhi promettendosi dolore: non esiste alcuna disciplina che ha un momento così intenso, ed è allora che la boxe diviene il più epico degli sport. Quanto appariva ingenuo De Coubertin a pensare che l' importante fosse partecipare: i due pugili, come chiunque sale sul ring, volevano terminare l' incontro con le mani alzate al cielo mentre il rivale è stramazzato nella vergogna del tappeto. No, sul ring non si tratta mai solo di vincere, ma di umiliare chi ha usato sfidarti.
Il pubblico del Madison Square Garden era diviso a metà tra i due sfidanti, e allo scoccare del primo gong la tensione esplose in urla e canti disordinati. Ali cominciò a danzare intorno a Frazier, punzecchiandolo con il jab sinistro, colpendo poi con feroci diretti destri: puntava gli occhi e al naso, con crudeltà, con scherno, voleva sfigurarlo prima ancora di umiliarlo. Ma Frazier non si lasciava intimidire e continuava ad avanzare, cercando di sferrare il terrificante gancio sinistro che l' aveva portata in cima al mondo. Riuscì a colpire Ali un paio di occasioni, ma lui, nonostante fosse scosso dalla potenza dei colpi, reagiva con un sorriso derisorio, e scuoteva la testa come per dire: «Tutto qui? Non mi hai fatto nulla».
Nei primi tre round sembrò che Ali controllasse il match senza problemi, e in alcuni scambi in velocità diede l' impressione di essere ancora il campione imbattibile che aveva ridicolizzato Cleveland Williams nell' incontro più perfetto di tutti i tempi, ritenuto l' esempio più efficace per comprendere perché la boxe è la Noble Art. Ma poi, a partire dal quarto round, l' inattività cominciò a farsi sentire, e Frazier avanzava implacabile, incurante dei pugni di Ali, che continuava a puntare al volto. A metà dell' incontro risultò chiaro che Frazier aveva preso il sopravvento: era inarrestabile, Smoking Joe, e Burt Lancaster urlò nel microfono: «È un carrarmato Sherman!».
A metà dell' undicesimo round, una combinazione di ganci fece piegare le gambe ad Ali, mostrando al mondo intero che anche il più grande era vulnerabile. Ma il campione era troppo stanco per chiudere l' incontro, e Ali fece appello a tutta la propria esperienza per rimanere in piedi, riuscendo poi a vincere i tre round successivi: la classe sopraffina era rimasta intatta. Ma allo scoccare del quindicesimo round, Ali sapeva di essere in svantaggio ai punti, e che avrebbe potuto vincere soltanto atterrando il rivale: era esausto, ma fece di tutto per danzare, colpendolo sempre sul volto. A metà del round lanciò un destro sul naso, ma si scoprì un attimo di troppo e il campione sferrò un gancio sinistro dalla potenza inaudita.
Partì dal basso, il colpo, e Frazier fissò il rivale con il sorriso rabbioso di chi punisce una persona che lo ha umiliato. Alì volò al tappeto con le gambe in aria, e nessuno al mondo riuscì a capire dove trovò la forza di rialzarsi dopo quattro secondi: era solo l' orgoglio a tenerlo in piedi, nessuno lo aveva mai atterrato, e il più grande non poteva rimanere al tappeto.
Riprese a combattere, stremato, e tentò perfino di attaccare, ma ormai l' incontro era compromesso: riuscì soltanto a resistere fino allo scoccare dell' ultima campanella. Frazier alzò le braccia al cielo, sapeva di aver vinto, ed esultò verso i suoi fan, nonostante il volto fosse una maschera piena di sangue, deformata da una mascella rotta. I tre giudici bianchi gli assegnarono la vittoria all' unanimità, e Ali, nell' ultimo tentativo di manipolazione, dichiarò che era una " white men decision".
Il più grande sembrava finito, in quella notte newyorchese, ma nel giro di tre anni riuscì a vendicarsi nella rivincita, e quindi a riconquistare il titolo battendo George Foreman in quel capolavoro passato alla storia come Rumble in the Jungle. Sconfisse infine definitivamente Frazier in The Thrilla in Manila, uno dei più emozionanti e drammatici incontri di tutti i tempi: per i due campioni fu il canto del cigno, e causò danni irreparabili nel fisico di entrambi.
Ali detestava il suo rivale sul ring quanto lo amava in privato: quando Frazier morì dopo una malattia devastante, pretese di celebrare personalmente il guerriero che gli aveva tenuto testa. Fu lui a portarne la bara a spalle, nonostante tremasse tutto per il morbo di Parkinson che aveva aggredito il suo fisico regale.
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