1. IL SEGRETO DEL SUCCESSO DI CROAZIA E MAROCCO? LA DIFESA
Fabrizio Patania per il Corriere dello Sport
Difendere si può, immaginando di vincere e ottenere risultati impensabili. È la lezione del Mondiale di Doha, organizzato per la prima volta nella storia in Medio Oriente, durante l’inverno e senza adeguata preparazione: cinque giorni appena dopo lo stop dei principali campionati in Europa. Può aver influito. Sono venute fuori partite sul filo, piene di equilibrio, risolte ai supplementari o ai rigori. Il copione forse verrà rispettato nelle due semifinali.
Da una parte la nobiltà rappresentata da Messi e Mbappé, la tradizione dell’Argentina, la grandeur della Francia. Dall’altra Croazia e Marocco, accomunate da un insolito destino: l’elogio della fase difensiva, sviluppata in senso moderno e armonioso, mescolando l’intelligenza calcistica a robuste dosi di umiltà e spirito di sacrificio. Si chiama senso di appartenenza. Dietro c’è un popolo.
MURO
I numeri non mentono. La Croazia ha subìto due gol in cinque partite. Il Marocco appena uno: autorete di Aguerd contro il Canada, altrimenti sarebbe stato percorso netto. Vengono dallo stesso girone, in cui hanno eliminato il Belgio, che partiva per il Mondiale immaginando di competere per il titolo. Si sono affrontate al debutto.
Il 23 novembre, quando in pochi ritenevano che Dalic potesse ripetere l’impresa compiuta in Russia e nessuno immaginava che Regragui regalasse un sogno ai maghrebini, il confronto diretto è finito 0-0. Nella fase a eliminazione diretta, la Croazia ha fatto fuori Giappone e Brasile ai rigori. Il Marocco ha eliminato la Spagna ai rigori e beffato il Portogallo. Un gol per mandare a casa due grandi: l’esaltazione del “corto muso” di Allegri.
POSSESSO
Non è stata solo difesa a oltranza. Dal punto di vista calcistico, Croazia e Marocco hanno imposto elementi di novità e spunti tecnici su cui riflettere. Dalic forse possiede la coppia di difensori centrali migliore del Mondiale. Lovren conserva i tempi e la personalità che ne avevano determinato il top della carriera a Liverpool. Gvardiol, il ventenne del Lipsia, si è rivelato un mostro: velocità, chiusure eleganti, palleggio. Somiglia a Nesta, rispetto a cui ha qualche centimetro in meno.
Livakovic, l’eroe della Dinamo Zagabria, gli esterni Juranovic e Borna Sosa blindano il reparto. La vera differenza croata tuttavia risiede nella capacità di gestione della palla. Si è visto con il Brasile. Uno o due tocchi, senza mai buttarla via. Uscivano benissimo, con precisione assoluta, sotto pressione. Pochissimi errori, così hanno difeso benissimo per 120 minuti. Non era semplice, sul piano del palleggio, reggere il confronto con il Brasile. L’impresa è riuscita grazie al sostegno di quattro centrocampisti come Brozovic, Kovacic, Modric e Perisic. Se avessero un centravanti dello stesso livello, non ci sarebbero quasi dubbi sull’esito del Mondiale.
CORSA
Il caso del Marocco è diverso. L’origine dei successi maghrebini affonda le radici nello sport olimpico per eccellenza: l’atletica leggera. Sono mezzofondisti. Resistenza e progressione. Hicham El Guerrouj, più volte campione mondiale, vinse due medaglie d'oro ai Giochi di Atene nel 2004. Nawal El Moutawakel si impose nei 400 metri ostacoli a Los Angeles nel 1984. Sono diventati protagonisti nel calcio grazie all’evoluzione della tattica, all’accademia federale, alle esperienze maturate in Europa. Senza madre natura non ci sarebbero riusciti.
Provate a misurare il cambio di passo di Hakimi, Boufal e Ziyech. Oppure la corsa inesauribile di Ounahi. La base tecnica è alta. La capacità di ribaltare il gioco a velocità folle è unica. Imprendibili. Difendono su due linee. Regragui, attraverso un 4-5-1 cortissimo, ha trasmesso compattezza e ordine. Bounou, premio Zamora nell’ultima stagione della Liga, ha aggiunto l’ultimo, indispensabile, contributo. Un portierone serve. Noi, ripensando alla gloria di Wembley e ai rigori neutralizzati da Donnarumma, ne sappiamo qualcosa.
2. I FIGLI DELLA GUERRA SEMPRE PRONTI A RESISTERE COSÌ LA CROAZIA TRASCINA LE PARTITE FINO AI RIGORI
Giulia Zonca per “La Stampa”
Chissà se questa Croazia inesauribile saprebbe trovare la stessa determinazione senza usare gli strascichi della guerra nei Balcani come spinta. Non esiste un'altra nazionale capace di recuperare sempre lo svantaggio, aggrapparsi alla partita, restarci dentro, non importa come, e reggere, reggere, reggere. Sigillano il risultato in pari ermetici fino a che il tempo dilatato dalla loro infinita resistenza scade e cede il risultato ai rigori.
Dove la Croazia non sbaglia mai. E quando arrivano le domande su questo estenuante metodo il ct Dalic, come chi l'ha preceduto negli ultimi 20 anni, richiama la battaglia, il popolo, l'esempio preso da genitori militari da trasmettere a figli che cresceranno nel mito della difesa dei confini.
La Croazia ha una nazionale ufficialmente riconosciuta solo dal 1992. Nel 1998 ha subito piazzato uomini d'oro in campo: Boban, Suker e terzo posto, battuti solo dalla Francia campione del mondo. Come nel 2018, con un gradino in più scalato a cui mancherebbe il titolo e loro non si vergognano affatto di inseguirlo così.
Bisogna essere molto bravi a giocare per distruggere le potenzialità altrui, è un'arma o almeno così la considerano, una tattica che attira pochi applausi ma garantisce l'effetto bunker. Tutti votati alla stessa causa e con un tifo che conta ogni singolo croato dedicato alla squadra. Compatti e indifferenti alle critiche. Fieri superstiti. Eppure resta strano pensare che una simile dose di talento debba servire la linea dell'assedio e corteggiare un vocabolario da guerriglia.
Troppo presto forse per passare ad altro, anche se il sospetto che questa dinamica sia contemporaneamente limite e motivazione esiste.
Vero, la Croazia è alla seconda semifinale consecutiva, il che dovrebbe sancire l'utilità del pari-cassaforte con richiami patriottici però si avverte lo spreco di stile. La Croazia conta 4 milioni di persone e dispone di un incredibile quota di giocatori stradotati rispetto ai numeri in cui pesca. Ha una scuola che detta influenze, ha Modric che è un tesoro da preservare: la consapevolezza di doverlo salutare dopo questa ennesima avventura Mondiale è molto più faticosa rispetto agli addii di Ronaldo e Messi.
Modric ha alle spalle un'infanzia da profugo che ha segnato il suo rapporto esclusivo con il pallone, ma non è la sofferenza che gli ha insegnato la visione di gioco, la velocità delle idee, i gesti sublimi. Tutta questa magia dovrebbe portare lontano dalla Zara attraversata dai cecchini e dall'albergo bombardato, trasformato in rifugio, dove tirava calci solitari per sfuggire alla paura.
Il portiere Dominik Livakovic, capace di parare 4 rigori fino a qui, è nato nel 1995, a guerra finita, sette mesi dopo la presa di Knin, ultima città chiave di cui i croati hanno ripreso possesso in un bagno di sangue: «Se crediamo così tanto in noi stessi è perché chi ci ha preceduto, ci ha insegnato a lottare, a non crollare quando sembra tutto perduto». Nobile condotta, anche se la pace chiede altri esempi e nuove parole e altre partite.
Ormai impostare le sfide sui rigori è uno schema preciso e si ripeterà contro l'Argentina. Modric ha 37 anni, non ha avuto troppo tempo per recuperare le energie spese nell'esasperante confronto con il Brasile e tutto il centrocampo over 30 deve trovare forza fresca su fisici provati. Gente che sa far girare la palla e nasconderla. Gente allenata alla guerra e convinta che averla in testa serva ancora. Per sapere come sarà la Croazia libera dalle proprie ossessioni bisogna aspettare la prossima generazione, ma se questa vuole davvero vincere un Mondiale non ha un minuto da perdere. E ne ha davanti quasi sicuramente più di 90.-