Giancarlo Dotto (Rabdoman) per Dagospia
La Juventus va dove andare. Il sesto scudetto consecutivo. In questi anni ha scientificamente scavato tra sé e le immaginarie rivali un canyon a perdita d’occhio. E’ la società più forte dentro una storia che la fa ancora più forte. E’ la squadra più ricca di talento.
Tra i dieci migliori giocatori del campionato italiano almeno quattro o cinque sono tra i primi dieci (Dybala, Higuain, Buffon, Bonucci e Mandzukic) e otto, nove, tra i primi venti, venticinque (aggiungo Cuadrado, Alex Sandro, Chiellini, forse Khedira). Lo stadio di proprietà alimenta calore e reddito. Non le serve collocare un genio, basta e avanza un ometto pragmatico, capace di qualche espressiva escandescenza quando ci vuole.
Ho due cavalli di razza, un croato e un colombiano, da sfiancare sulle fasce in una sintesi rara di forza aerobica, tecnica e carattere? Li faccio giocare insieme e questo mi autorizza il lusso di mettere in campo tutte le mie star e principesse. Risultato, la Juve vince quando deve vincere e vince soprattutto partite come quella con l’Inter dove te la giochi alla pari per novanta minuti. Da qui in poi dovrà solo gestire, contro due squadre belle, il Napoli bellissimo, ma non immuni da frane occasionali. Dal cilindro enorme della Juventus il coniglio ci scappa sempre. L’ultimo, Cuadrado. Vallo a prendere. Valli a prendere.
Dove lo strapotere della Juve diventa mortuario e pornografico è nell’ossequio ridondante e pecoreccio di chi le sta attorno. Nella ripetizione all’infinito del gesto suddito. La vera piaga di questa nazione debosciata. Un arbitro in campo, Rizzoli, e un ex arbitro fuori, Cesari, hanno confermato domenica sera tra lo Stadium e gli studi di Cologno Monzese che la lingua va dove il dente vuole. Uno show persino struggente per l’ostinazione mula a non fischiare prima e non riconoscere poi due rigori e mezzo molto ma molto probabili per l’Inter. Incredulità e rabbia degli astanti e collegati con lo studio di Mediaset, in particolare, per l’exploit dell’omino intuibile in quell’ammasso di peli e rughe, dove non transitano più chissà da quanto quei meravigliosi rossori adolescenziali di quel meraviglioso tarlo che è il dubbio.
Nella virile missione di tenere il punto Cesari si è prodigato in un uno contro tutti da Colosseo, dove persino lo juventinissimo Tacchinardi gli dava addosso. Il concetto è sempre lo stesso. Immutabile. Nel dubbio, la Juve ha sempre due occhi di riguardo.
Questa pornografia dell’ossequio a oltranza, detta anche sudditanza, un tic possente e innocente dell’anima, imprime sulla pelle di una squadra concepita dalla Fiat per saziare di panem e circenses il vasto mondo dei diseredati un’inutile antipatia. A meno che, come si registra qua e là tra i più arroganti ricchi di trofei ma poveri di spirito, l’essere antipatici non sia una godereccia conferma del proprio potere.
Il risultato è che, invece di concentrarsi sportivi sulla grandezza della Juve o gufanti sull’attesa dei suoi improbabili inciampi, noi nemici stiamo lì, in trepido ascolto, a registrare e collezionare l’ennesimo caso a sostegno dell’hashtag “Juve ladrona”.
Condannati alla meschina e un po’ paranoica esultanza dei notabili che, non potendo viaggiare nella stratosfera, si accontentano di mettere a verbale, con un pizzico di masochistico piacere, lo svolgersi puntuale e immodificabile degli eventi.