Estratto dell'articolo di Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport
(…) Il disastro delle telecronache. Non avendo la facoltà dell’amico Sandro Piccinini (auguri a proposito per il ritorno a breve su “Amazon prime”) di fare da casa le telecronache interiori, azzerando i volumi disturbanti, la scelta è stata penosa.
Se farsi strapazzare in Rai dall’euforia logorroica della seconda voce, Dio non ce ne voglia, femminile, o farsi macellare i timpani su Sky dalla prima voce maschile, pure lei protesa a guadagnarsi il suo strapuntino nella scena del mito. Che invece era solo la scena del delitto. Delle nostre membrane e delle nostre cartilagini offese a morte dall’energumeno, cui nessuno riesce a spiegare con parole semplici che per sottolineare una festa non c’è bisogno di ritornare a Neanderthal. E che, in assenza di un pensiero, non devi per forza vuotare il sacco della retorica più bolsa. Un assedio belluino. Gli italiani volevano essere liberi di festeggiare, a modo loro, al riparo dalle sue urla.
Anche qui il cammino è segnato. Il “nuovo” avanza. I telecronisti del domani: i tatticoinomani sapienti. Decine di cloni accomunati dalla libidine di somigliarsi, nell’uso della lingua che usano e nella perversione della spiegazione tattica.
L’ENFASI MISTICA DI CARESSA
Renato Franco per www.corriere.it
L’enfasi mistica di Fabio Caressa. La burocrazia curiale di Stefano Bizzotto. «In medio stat» la partita e magari anche la virtus. Perché le telecronache di Italia-Inghilterra si sono giocate su due poli di racconto opposti. Tanto misurato (pure troppo) lo storytelling Rai, tanto ridondante la versione di Sky. Da una parte Bizzotto da Bolzano con quella verve da funzionario della ex Ddr; dall’altra Caressa da Roma con quella sana empatia trasteverina che annega però nella retorica dell’impresa.
In comune un profluvio di parole, tante, troppe, che attutivano il rumore del campo, di uno stadio finalmente pieno (che poi sia stato un errore è un altro discorso). In uno zapping compulsivo è capitato di andare su Zdf, la rete tedesca, pur non spiccicando una parola della lingua. Ma tanto lì regnavano in egual misura il silenzio dei commentatori e i suoni del campo. Beh almeno i nomi dei giocatori si capiscono, uno pensa. E invece niente. Un Chiellini ogni tanto, a sorpresa, come non fosse nemmeno necessario dire chi aveva il pallone tra i piedi. Filosofie completamente diverse.
Lo sconfitto
Ha vinto l’Italia, ma il vero sconfitto di questi Europei è Fabio Caressa che ha trasformato le sue telecronache in una sfida personale, alzando a ogni partita dell’Italia l’asticella della retorica là dove nessun evento merita di essere portato, nemmeno il più strabiliante (aggettivo che nella scala di valori superlativi di Caressa ha un’accezione negativa). L’ebbrezza rapita per «tornare a cantare l’inno a Wembley, senza paura»; l’invito estatico a «mettere le bandiere fuori dai balconi», fino all’apoteosi finale: «Grazie Signore che ci hai dato il calcio, grazie al calcio che ci fa abbracciare, grazie per queste lacrime. Grazie Signore».
Tanta gioia, ma anche meno. Il tutto ululato a un numero di decibel da far diventare sordo anche chi già lo è. Nata con finalità prevalentemente pragmatiche — un discorso teso a persuadere chi ascolta, dunque puntando sulla malìa positiva del ragionamento — la retorica nelle parole di Caressa diventa una definizione da vocabolario: «Una vana e artificiosa ricerca dell’effetto con manifestazioni di ostentata adesione ai più banali luoghi comuni».
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