Giulia Zonca per “la Stampa” - Estratti
Come non sbagliare un gesto e non sciupare una parola sulla strada della gloria senza rendersi antipatico.
Non ci era mai riuscito nessuno, ma Jannik Sinner è fatto per arrivare dove si pensa non si possa andare. Gli riesce in campo, quando raggiunge spazi battezzati impossibili torcendo caviglie e ginocchia come se fosse in grado di allungarsi a elastico e fuori, con frasi che accarezzano temi lasciati per terra dagli altri.
Con reazioni e scelte fuori repertorio. Talmente perfetto da sembrare finto, se non fosse Sinner e non si portasse dentro una naturale predisposizione all'attenzione. Dote allenata con costanza.
In quindici giorni, da Indian Wells a Miami, ha rivoltato il significato del gesto dell'ombrello, ha giocato su una sedia a rotelle, ha soccorso un tifoso e ha parlato di etica del lavoro da presidente della repubblica.
Dalla galanteria al suggerimento generazionale, senza mai un giorno banale dentro la settimana da santo che lo ha portato a essere il numero due del mondo.
Da lì, ha unito la predestinazione al lavoro: sequenza spiazzante, per altro senza nessuna domanda a cui rispondere, davanti a un messaggio da lanciare, a un ringraziamento aperto diventato dedica ai tifosi e verità incontrovertibile. «Senza lavoro non ci saranno mai risultati, o comunque un risultato per caso, se uno è predestinato per lavorare i risultati vengono».
Ecco qui, banale fin che si vuole, ma di solito si è predestinati al successo, alla grandezza ovvero talentuosi in un modo talmente evidente da imporsi in anticipo sulla carriera.
Oppure si è portati al lavoro, votati all'ossessiva ripetitività che consente di migliorarsi di continuo, persino più in fretta (o almeno più a lungo), di chi ha numeri ricevuti in eredità. E poi c'è Sinner che è «predestinato al lavoro», un'ovvietà potenziata a segreto, a sveglia, a rivelazione perché lui, ragazzo nato con qualità atletiche appariscenti, ha capito che grazie a quelle poteva pure campare egregiamente di sport, ma non essere straordinario.
Non gli avrebbero garantito il divertimento. Da sole o supportate a sprazzi, lo avrebbero esposto alla casualità del rendimento, ai cali di forma, alle critiche facili, ai commenti sull'accento e sul colore dei capelli, alle stizzite rimostranze di chi (sempre meno) ancora gli rinfaccia la residenza a Montecarlo. Abitata da tempo, sfruttata per un trattamento fiscale e pure per il clima, per gli incroci frequenti con la comunità di cui è parte.
Opzione legale e condizione mai nascosta. Quel ronzio di rimostranze incattivite poteva dare sui nervi e lui lo ha disinnescato spiegando, motivando.
Senza ipocrisia.
Ha esaltato la figura del genitore nel destino di un campione, «non mi hanno mai messo pressione» e non smette mai di gratificare il proprio team, altro tributo scontato quando tutto gira, però lui sa che «la freschezza percepita anche alla fine di un torneo» la deve a chi tara ogni dettaglio sulle sue esigenze, sul recupero, sulle ore con la racchetta, quelle in palestra, quelle a dormire.
Ciò non significa che non cambierà mai entourage, solo che è consapevole di non poter vincere da solo. Sono tutte potenziali perle di retorica, lui le traduce in un'esaltante pratica, uno spot continuo per valori utili. Spalletti lo indica come esempio per un gruppo a cui rimprovera di buttare ore di sonno nelle sfide a playstation. Ed è quel tipo di investitura che ti può facilmente mettere in una posizione insostenibile. Il tizio che, di media, la massa decide di detestare. Invece Sinner sa portare il ruolo scomodo.
Resta credibile persino da samaritano, non si pone in confronto, mostra sempre una sua via che non è per forza l'unica. Esistono magnifici sbruffoni, fuori classe cresciuti a forza di provocazioni azzeccate, fenomeni che hanno messo nel catalogo dell'eccezionale pure i capricci.
E valgono, piacciono, continueranno a farlo, eppure non è una coincidenza che il momento Sinner sia questo. Un idolo che rappresenta i ventenni stufi di non avere mai la considerazione che meritano, uno che gestisce toni e modi.
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