I CINQUE CERCHI DEL DOPING - SECONDO IL “NEW YORK TIMES” LA RUSSIA RICONOSCE CHE IL SISTEMA PORTATO A GALLA DAL RAPPORTO DELLA WADA E’ UNA DELLE MAGGIORI OPERAZIONI DI DOPING NELLA STORIA DELLO SPORT MA RESPINGE L’IDEA CHE DIETRO CI SIA LA MANO DI PUTIN - MOSCA RILANCIA: "ANCHE LA NAZIONI OCCIDENTALI SONO STATE COPERTE DAL CIO"

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Da “repubblica.it”

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La Russia ammette per la prima volta "uno dei maggiori complotti nella storia dello sport: un'operazione di doping vasta sugli atleti russi", che non ha riguardato solo le Olimpiadi invernali di Sochi nel 2014 ma anche altre edizioni dei Giochi, estivi e invernali. Lo riporta il New York Times citando interviste con funzionari russi che, comunque, respingono l'idea che il programma di doping fosse gestito direttamente dallo Stato.

 

Mosca avrebbe quindi accettato le prove che dimostrano come uno dei più elaborati e riusciti schemi di doping nella storia dello sport, che ha coinvolto mille atleti in 30 discipline, sia stato messo a punti da funzionari russi.

 

Nel corso di giorni di interviste condotte dal quotidiano Usa nella capitale russa, alcuni funzionari del Cremlino non hanno contestato i fatti: e fanno capire di essere convinti che le nazioni occidentali abbiano goduto del favore delle autorità sportive mondiali, cosa che sembra fare loro da giustificazione alle azioni con cui la Russia avrebbe barato. 

 

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Il New York Times ha raccolto a Mosca le loro voci sette mesi dopo le rivelazioni di Grigory Rodchenkov, il direttore del laboratorio anti-doping della nazione ai tempi delle Olimpiadi invernali organizzate in casa nel 2014 a Sochi, secondo cui decine di atleti russi partecipanti erano parte di un programma di doping gestito da Mosca, pianificato nel dettaglio per anni e pensato per garantire il dominio ai Giochi.

 

La sua tesi ha combaciato con quanto emerso da un rapporto diffuso dall'Agenzia mondiale antidoping (Wada) due mesi dopo e confermato da nuove scoperte rese pubbliche il 9 dicembre 2016 da Richard McLaren, il legale canadese che ha condotto le indagini per conto della Wada e che ha messo sotto pressione il Comitato olimpico internazionale affinché riveda il medagliere di Sochi e penalizzi Mosca in vista dei Giochi invernali del 2018.

 

"Era una cospirazione istituzionale" attuato negli anni, ha dichiarato al giornale newyorchese Anna Antseliovich, direttore generale dell'agenzia anti-doping della Russia, convinta che i vertici del governo di Vladimir Putin non ne erano coinvolti; il ministro russo dello Sport, Vitaly Mutko, ha sempre negato le rivelazioni. "Non voglio parlare per conto delle persone responsabili", ha aggiunto Vitaly Smirnov, 81 anni, chiamato da Putin quest'anno per riformarme il sistema anti-doping della nazione e che nell'era sovietica era un funzionario per lo sport.

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"Dal mio punto di vista, in quanto ex ministro dello Sport ed ex presidente del Comitato olimpico, abbiamo fatto tanti errori", ha continuato Smirnov secondo il quale "dobbiamo scoprire le ragioni che spingono giovani atleti a doparsi, che li portano ad accettare il doping".

 

Smirnov, che sembra pronto a guardare avanti lasciandosi lo scandalo alle spalle, ha citato file medici ottenuti apparentemente dagli stessi hacker russi che hanno penetrato le reti informatiche del partito democratico americano e che hanno mostrato come centinaia di atleti occidentali abbiano ricevuto permessi medici speciali per assumere farmaci teoricamente illeciti ma utilizzabili per ragioni terapeutiche legittime. Secondo lui "Alla Russia non sono mai state date le stesse opportunità garantite ad altri".

 

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Stando al New York Times, l'apertura della Russia potrebbe essere alimentata dal desiderio di riconciliazione con le autorità; la nazione deve di fatto fare un "mea culpa" prima di potere tornare a ospitare competizioni olimpiche e prima di essere nuovamente ritenuta idonea a condurre test anti-doping. Oltre a motivi legati alla reputazione internazionale, ci sono anche quelli economici da prendere in considerazione. 

 

L'approccio per il futuro sportivo della Russia, e delle misure dell'Agenzia mondiale antidoping si riassume con le parole, citate dal Nyt, di Mikhail Kusnirovich: il titolare del colosso dell'abbigliamenti sportivo russo Bosco (che ha risentito dell'assenza di una gran parte degli atleti di Mosca a Rio de Janeiro) ha detto che "anche ai tempi di Stalin c'era un detto: 'un figlio non è responsabile dei peccati del padre". Come a dire, chiudiamo un capitolo, preferibilmente senza incriminare nessuno, e apriamone un altro.

 

 

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