Antonio Barillà per “la Stampa”
Cos' ha di speciale Franco Armani, portiere del River Plate e "secondo" di Emiliano Martinez nell'Argentina? È l'unico, tra i biancocelesti, a giocare in Primera Division, profeta in patria tra campioni esportati. In Europa, perlopiù: solo il ripescato Tiago Almada è infatti protagonista negli Stati Uniti con l'Atlanta United. Il numero uno dei Millionarios è stato abbinato qualche anno fa alla Juventus che cercava un vice Buffon, ma l'unico trasloco della carriera l'ha portato a Medellin, in Colombia.
Al di là della curiosità, il dato diventa spunto di riflessione per smontare uno degli alibi più inflazionati dopo la seconda esclusione degli azzurri dai Mondiali: pochi italiani in Serie A, pochi giovani soprattutto, il presunto talento di casa soffocato dall'invasione di stranieri. La Seleccion ne dimostra la fragilità: non sono certo gli spazi ridotti in campionato a impedire la crescita di un movimento o negare alla Nazionale risultati positivi. Si dirà: l'Argentina è caso a sé. Lontano dalla nostra cultura calcistica.
Peccato che la Francia, altra finalista, per la seconda volta di fila in fondo al Mondiale e a un passo da un'impresa storica - solo Italia e Brasile, nella storia, sono riuscite a vincere due edizioni di fila - abbia un rapporto di poco superiore ma egualmente indicativo e, per noi italiani, disarmante. Solo cinque dei calciatori di Didier Deschamps giocano infatti in Ligue 1: Kilyen Mbappé nel Psg, Matteo Guendouzi e Jordan Veretout nell'Olympique Marsiglia, Steve Mandanda del Rennes e Youssouf Fofana nel Monaco.
Tutti gli altri si dividono tra Liga spagnola, Bundesliga tedesca, Premier League inglese e Serie A, questi ultimi appartenenti quindi, per quelli delle spiegazioni populiste a buon prezzo, all'esercito di campioni che mortificano i nostri calciatori negando loro spazio adeguato in campionato. Invertiamo prospettiva: e se fosse un problema di qualità? In fondo sono pochi gli italiani per cui le big d'Europa s' accapigliano, tra i rari esempi di arruolati spiccano Marco Verratti e Gigio Donnarumma nel Psg e Jorginho al Chelsea: magari è questa la radice delle minuscole opportunità concesse e dell'esagerazione nel battere rotte internazionali di mercato.
Considerando che non saremo al top del livello tecnico, ma nemmeno messi così male - la nuova generazione, soprattutto, promette un ciclo felice e tra i giovanissimi appena convocati per lo stage azzurro di Coverciano diversi sono predestinati - e d'altronde l'Europeo dimostra che sappiamo anche vincere -, trova maggiore credibilità una terza prospettiva, ovvero la mancanza di coraggio: se guardassimo meno l'anagrafe, se lanciassimo di più i giovani, il movimento crescerebbe e ne guadagnerebbe la fucina azzurra.
Francia e Argentina lo fanno e infatti, con pochi protagonisti in Ligue 1 o Primera, si giocheranno il Mondiale che noi guardiamo in tv. Di sicuro ha ragione Giorgio Scalvini, simbolo della nuova generazione, 19 anni e già 3 presenze nella nazionale maggiore, quando sostiene che i giovani bravi lo spazio lo trovano, ma investire di più nei vivai, allestire le squadre B, creare strutture moderne e privilegiare il talento all'esperienza permetterebbe di creare una mentalità nuova, una risorsa estesa oltre le oasi come l'Atalanta che di Scalvini è stata culla.
Il Lecce, per dire, è la squadra più giovane della Serie A e il ct Roberto Mancini ne ha convocati quattro. A lui, d'altro canto, il coraggio non manca e di sorprese ne ha regalate tante: da Sandro Tonali, pescato in Serie B nel Brescia, a Simone Pafundi, scelto a 16 anni con una sola presenza nell'Udinese.