Matteo Pinci per repubblica.it - Estratti
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Quattordici anni dopo siamo ancora all’anno zero, col rimpianto di aver incenerito oltre un decennio senza fare assolutamente nulla. In quel 24 giugno 2010 Gianluigi Donnarumma era un undicenne che giocava nel Club Napoli di Castellammare di Stabia. Oggi è l’unico fuoriclasse prodotto dal nostro movimento in questi 14 anni.
Dove finisce il talento? L’esame autoptico sul calcio di strada abbandonato per i videogiochi, sulle scuole calcio, sulla troppa tattica è persino superato: sono cose che esistono ovunque, anche dove nascono Mbappé e Bellingham, Wirtz e Yamal.
Donnarumma è però l’unico dei 26 portati da Spalletti in Germania che a 16 anni aveva già giocato in Serie A. Lo lanciò Mihajlovic, come fece, ma da giocatore, anni prima suggerendo a Boskov di dar fiducia a un certo Totti, 16enne anche lui. Oggi Calafiori e Dimarco, tra i talenti migliori della Nazionale, per esplodere sono dovuti passare dalla Svizzera – perfido paradosso – perché scartati a 20 anni da allenatori che preferivano l’usato garantito. Siamo i più bravi (o tra i più bravi) a 17 o 18 anni. Poi scompariamo per ritornare in Nazionale a 23.
L’Italia accessibile a quasi tutti
Quando Spalletti si è seduto alla scrivania per compilare la lista dei 26 azzurri aveva l’imbarazzo della scelta tra i portieri. Per il resto, da mettersi le mani in testa. I calciatori selezionabili considerando età (diciamo under 35), integrità fisica, esperienza minima, erano solo 137. Vuol dire che uno ogni sei è stato convocato per l’Europeo. Altro che uno su mille ce la fa: è una nazionale discount, accessibile praticamente a tutti.
Gli italiani non giocano. E non giocano ad altissimo livello: per minuti in Champions gli azzurri dell’Europeo sono distantissimi da francesi e tedeschi, portoghesi e spagnoli, nonostante l’età verdissima di questi ultimi.
Anche perché sono pochi i nostri nazionali che vanno a giocare all’estero: poco più di uno ogni dieci, mentre in Francia più di due su tre vivono lontano da casa, uno su quattro tra gli spagnoli. E il 92% degli svizzeri, nuovo termine di un imbarazzante paragone. I ventenni non sono praticamente pervenuti: tra i cento under 20 più impiegati nelle serie A di tutto il mondo, l’unico italiano è Kayode, della Fiorentina, e solo o quasi per l’infortunio di Dodò.
La Serie B contro le seconde squadre
Tutto ciò riguarda le scelte di allenatori e giocatori. Ma c’è anche una questione politica. Quando nel 2018 la Federcalcio aprì alle seconde squadre aderì un solo club: la Juventus. E per anni fu una specie di plusvalenzificio.
Da un paio d’anni sta dando frutti – Fagioli, Soulé, Hujsen – e altre l’hanno imitata: un anno fa l’Atalanta, oggi il Milan. Eppure si scontra con l’ostilità della Serie B. La stessa che annuncia progetti per i giovani e poi chiede uno straniero a squadra in più. De Laurentiis voleva addirittura otto extracomunitari, ma l’ultimo titolare cresciuto in casa che ha avuto è stato Insigne, classe ’91.
Di chi è la colpa? Facile dire della Federcalcio, responsabile della Nazionale e della politica sui giovani. E responsabilità ne ha di certo. Ma ogni tentativo di riforma si è scontrato con le resistenze del movimento. Senza che i club – nessuno, davvero – facessero alcunché per favorire l’impiego degli italiani.
Anzi, hanno intasato le squadre di stranieri, spesso senza alcuna qualità, ma che grazie al decreto crescita costavano meno. Il 4 novembre si voterà un nuovo (o vecchio) presidente federale. A deciderlo sarà con ogni probabilità la Lega Dilettanti che pesa per più di un terzo dei voti. Ed è guidata da quell’Abete che 14 anni fa denunciava il problema e che oggi è ancora lì, senza aver mai nemmeno suggerito una soluzione.