Matteo De Santis per la Stampa - Estratti
Atteso al varco da chi sosteneva che fosse una scelta decorativa utile solo a tenere buona la piazza furente, il provetto allenatore Daniele De Rossi ha imboccato la via della discontinuità col passato e recuperato l'anima della Roma. Terapia d'urto nelle prestazioni, ma meno pressioni sulla mente dei giocatori: la nuova gestione, scadenzata contrattualmente (per ora) fino al 30 giugno, ha prodotto 5 vittorie nelle 6 partite di campionato e un avanzamento di un turno in Europa sulla pelle del "solito" Feyenoord nei 43 giorni intercorsi dalla soppressione del rapporto, fin lì da nono posto, con José Mourinho.
La matematica sostiene che i 15 punti rastrellati con Verona, Salernitana, Cagliari, Frosinone e Torino (unico dispiacere con l'Inter capolista) sono anche più della metà dei 29 del predecessore in 20 giornate. Un cambio di rotta numerico, ma anche fattuale. Con la discesa in panchina di De Rossi, bisbigliano a Trigoria, l'aria è cambiata.
«La squadra è forte», le parole che hanno sancito una rottura comunicativa con i frequenti pubblici messaggi di una rosa non attrezzata per tutte le competizioni lanciati da Mou.
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«Sono qui per fare l'allenatore, non per andare in giro con la mascotte», uno degli slogan d'insediamento dell'uomo che alla Roma ha dato quasi tutta la sua carriera da calciatore (616 presenze e 63 reti) e sta ponendo le basi (dopo l'esordio alla Spal) della sua professione in panchina. Il laboratorio di Trigoria registra novità quasi giornaliere nel lavoro sul campo: dalla seduta pomeridiana dello scorso 16 gennaio i giocatori si sono ritrovati di fronte a un completo cambio nei metodi e nei carichi di allenamento. Un'inversione di rotta che coinvolge anche l'aspetto della gestione del gruppo, narrato unito e compatto come non mai.
Da uno spogliatoio frastagliato in tanti clan, come quello di alcuni senatori italiani scontratosi in passato con Matic (andato via la scorsa estate tra reciproci rancori), a una socialdemocrazia partecipativa che non fa figli e figliastri. Potenza del dialogo quotidiano instaurato, suggellato anche da una cena collettiva in un ristorante sul mare di Ostia: esempi sparsi con la permanenza di Kristensen, convinto a restare nonostante l'esclusione dalle liste per l'Europa League, le rivitalizzazioni di Paredes e di capitan Pellegrini, il lancio di Svilar e il ritorno su livelli aurei di Dybala. «La cosa che mi piace di più – l'ammissione di De Rossi dopo i tre punti arpionati contro il Toro – è l'atmosfera che vivo nello spogliatoio e dentro Trigoria.
La simbiosi totale con i giocatori, lo staff, i dirigenti, Dan e Ryan Friedkin». Inclusivo dove, specie negli ultimi tempi cupi, Mourinho era stato divisivo. «Daniele ha riportato la romanità», il plauso dell'antico sodale Totti.
Adesso lavora per ricondurre la Roma, attraverso l'Europa League o il campionato, nella terra promessa della Champions. Paradiso perduto nell'ultima stagione di De Rossi con la fascia da capitano al braccio (2018/2019), sfuggito anche all'oracolo Mou: la riconquista da allenatore comporterebbe quasi sicuramente anche la permanenza sulla panchina del cuore.
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