Fabrizio Roncone per il Corriere della Sera - estratti
Non era scontato che Luciano Spalletti, contro la Croazia, cambiasse anima tattica alla Nazionale. Almeno, non così radicalmente. Invece ha saputo rinunciare alla sua idea di «calcio relazionale» (...)
Contro i croati, l’altra sera, ci siamo perciò trovati davanti a una squadra azzurra che era dentro un piano di gioco poco cerebrale e molto classico, molto italiano, in teoria semplice da realizzare (solo in teoria: perché poi abbiamo comunque arrancato per lunghi tratti, confusi e con poca gamba): era un 5-3-2 concreto e familiare, utile — probabilmente — anche per accrescere l’autostima del gruppo, piuttosto traballante.
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Fabio Capello, su Sky Sport, sostiene che siano stati i giocatori a indirizzare la scelta, «perché magari sono più abituati al modulo che va per la maggiore in Italia». È un’ipotesi condivisibile.
Del resto, ogni allenatore sicuro di sé parla e si confronta con i suoi uomini più fidati, quelli che gli servono a decifrare gli umori della squadra, e le incertezze, le subdole resistenze, se non addirittura proprio le paure. Solo che quando, in conferenza stampa, una domanda che portava più o meno a questa tesi, è planata davanti al cittì, lui ha ruotato, lentamente, la testa. È quel genere di rotazione spallettiana che conosciamo. E non annuncia niente di buono. Così, tra le pieghe di una risposta troppo ruvida, s’è intuito che il cittì comincia a immaginare, o temere, spifferi malvagi nel suo spogliatoio e nei corridoi vicini, dove potrebbe aggirarsi qualche perfido «topino» parlante, come li chiamava ai tempi di Trigoria, a Roma.
È certo che il cittì, consapevole di alcuni anfratti del suo carattere, si sia subito pentito di quella reazione. Comprende che non è il momento di farsi venire sindromi da assedio, e che simili debolezze potrebbero risultare fatali. E poi ha visto, ha vissuto troppo calcio, e sa bene che non esiste quel mondo fantastico in cui un allenatore della Nazionale può lavorare in santa pace, e cambiare idea, e magari cambiarla ancora, senza che voli una foglia di curiosità.
Adesso, per dire, ci chiediamo: Zaccagni lo rimetterà in panchina, contro la Svizzera? E Jorginho: lo toglie o no? Occhi curiosi osservano gli allenamenti nascosti nel bosco. E non sono topini, mister, ma cronisti.
ALDO GRASSO STRONCA SPALLETTI
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Aldo Grasso stronca Luciano Spalletti a Speciale Calciomercato. Invitato dalla trasmissione di Sky Sport di Bonan, il critico televisivo del Corriere della Sera fa un’analisi spietata della comunicazione di Spalletti. Parla di linguaggio oracolare, di religiosità. Concetti molto simili a quelli espressi dal Napolista (qui abbiamo scritto di Spalletti come ct predicatore).
Queste le parole di Aldo Grasso a Speciale Calciomercato
«Nelle immagini viste Spalletti conclude sempre dicendo “questo è il mio pensiero”. Ho avuto l’impressione che quando è stato nominato ct della Nazionale, non volesse soltanto allenare il Napoli ma ha voluto fare qualcosa di più, quasi una sorta di religione della Nazionale. E cioè ha cominciato a togliere la PlayStation, ha messo i comandamenti, ha usato la parabola del figliol prodigo per convocare Fagioli, ha invitato i dieci profeti del bel calcio.
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Ha messo i sei comandamenti, non dieci, si è limitato a sei però i comandamenti. Cioè non voleva soltanto cambiare la Nazionale, voleva cambiare il mondo. E quando si fanno questi passi qua di voler cambiare il mondo, poi tutta l comunicazione dipende da questo. Lui ha questo stile un po’ oracolare che va bene nei pre partita quando disegni questi scenari in cui faremo, capovolgeremo. Poi quando le cose non vanno per il verso giusto, lui va molto in difficoltà».
Riprende Aldo Grasso: «Innanzitutto mai voler cambiare il mondo, mai mettere i comandamenti, attenersi al proprio lavoro. (qui interviene Bonan e dice che forse lo ha fatto nel tentativo di ampliare il fascio di luce sulla Nazionale). Però – prosegue Grasso – lo si fa in termini calcistici non in termini “religiosi” oracolari. poi si trova in difficoltà, c’è la partita, l’adrenalina, il nervosismo, poi lui ha una resistenza di venti secondi, fa un discorso di senso compiuto di venti secondi e poi non si capisce assolutamente che cosa voglia dire».
«La comunicazione oggi è troppo importante, poi finisci con l’avere un’immagine negativa, l’incidente con i giornalisti, cominciano che si sentono di avere la stampa contro, si sentono circondati, nasce l’idea di un complotto. Se i rapporti fossero più sereni, se anche uno smitizzasse, uno dei compiti degli allenatori dovrebbe essere quello di smitizzare sé stessi e quindi anche tutto il discorso. Lui sta mitizzando la Nazionale».
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