Mattia Chiusano per la Repubblica - Estratti
Molte vite fa, Julio Velasco è stato dirigente del calcio accanto a Sven Goran Eriksson: «Un gentiluomo, aveva grandi capacità di incidere con uno stile molto soave, sapeva parlare attraverso un giocatore, un fisioterapista per non logorarsi il rapporto con la squadra. Amava la vita, l’Italia, il sole, il cibo, il mare».
Ma ventiquattro anni dopo quella comune esperienza alla Lazio, nell’ultima delle sue evoluzioni Velasco è tornato su una panchina di volley e ha firmato una delle più grandi imprese dello sport italiano: l’Olimpiade dominata dalle ragazze a Parigi. E ora che si prepara a un viaggio culturale in Scandinavia, tutto comincia ad essere più chiaro, quel che è successo si libera dell’adrenalina per diventare solido ed eterno.
Velasco, cosa vede ripensando alla finale con gli Usa dell’11 agosto?
«Lì per lì ha comandato l’euforia, c’è voluto tempo per rendersi conto di quel che abbiamo fatto. Ma due settimane dopo trovo gente che non ha mai visto la pallavolo e si è entusiasmata, è importante rendere popolare sport che non sono il calcio, e noi l’abbiamo fatto con un’annata straordinaria, in cui abbiamo vinto anche la Nations League perdendo a Parigi un solo set. Mi hanno chiamato dall’Argentina, dalla Spagna: questa squadra trasmette qualcosa, che non è spiegabile nella maniera in cui vince ma nel modo in cui si presentano le ragazze».
JULIO VELASCO DOPO LA VITTORIA DELLA NAZIONALE FEMMINILE DI PALLAVOLO ALLE OLIMPIADI
Già, come sono le azzurre?
«Loro danno un’immagine di se stesse come se fossero ragazze uguali alle altre, ma non lo sono. Questo crea identificazione, sono come Vasco Rossi, sembra uno che puoi incontrare al bar, non ha la voce di altri ma invece è un autore e cantante straordinario. Queste azzurre poi rappresentano la nuova Italia, sono figlie di immigrati africani, tedeschi, c’è una sarda come una lombarda da svariate generazioni. Raffigurano la società che sarà, e così vengono vissute a livello inconscio. L’Olimpiade ti costringe a vedere il mondo com’è».
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giovanni malago con julio velasco
Ha intuito in Paola Egonu il peso di rappresentare troppe cose, non solo nello sport?
«È difficile quando il personaggio sostituisce la persona. Capita anche a me, per fortuna un po’ meno che in passato».
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E come ha fatto ad aiutare Egonu?
«Le ho detto: “Io so che c’è Paola Egonu, ma a me interessa solo Paola. Se posso ti aiuterò, sui temi come il razzismo ti difenderò sempre, ma goditi anche quel che hai, che è tanto”. Non le ho parlato molto dei problemi che ci sono stati, le ho detto “anche se non siete amiche la squadra può essere fortissima lo stesso”. Nelle aziende spiego sempre che l’aiuto, non l’amicizia, fa parte dello sport: nel calcio non faccio un raddoppio per non lasciare solo un amico, ma perché fa parte dello sport».
Certo, sembra che in nazionale alcune non si parlassero nemmeno.
«Che esagerazione, sono giovani. Come marito e moglie, magari litigano duramente, poi dopo tre giorni fanno l’amore. Sono cose normali che vengono amplificate sui media, e nel calcio questo si moltiplica per mille».
Dove nasce la sua raccomandazione di portare in ritiro solo libri “leggeri”?
«Bisogna avere con sé cose che ti distraggono: Dostoevskij si legge a gennaio, non durante le Olimpiadi. Quando sono stato preso dal periodo dei libri gialli dormivo quattro ore a notte, volevo sapere chi era l’assassino poi la sveglia suonava alle sei».
La cultura aiuta un campione? In ritiro lei fece vedere un docufilm sull’intestino.
«L’ho fatto in funzione del benessere delle atlete. Giocare meglio pesa per il 99%, noi abbiamo vinto l’Olimpiade perché abbiamo giocato meglio. Bisogna lasciar perdere gli aspetti sociologici, i Beatles non sarebbero rimasti se avessero fatto canzoni scarse nei mitici anni Sessanta, nello stesso periodo suonavano gruppi come i The Monkees che nemmeno ci ricordiamo più».
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Molti si sono spaventati quando ha ipotizzato il suo addio alla nazionale: nei suoi programmi invece c’è un viaggio americano e un Mondiale.
JULIO VELASCO DOPO LA VITTORIA DELL'ORO OLIMPICO DELLA NAZIONALE FEMMINILE DI PALLAVOLO
«Voglio fare una full immersion di inglese, tre settimane da solo senza parlare spagnolo o italiano, per imparare a decifrare anche i diversi accenti. Poi verrà la stagione del Mondiale, e tutti vorranno batterci.
Sarà dura, come sempre bisognerà cambiare, ma chiunque vorrebbe essere al nostro posto».
Ma in quarant’anni come ha visto cambiare l’Italia?
«Abbiamo tre ore a disposizione?
Beh, posso dire che sono arrivato nell’83, c’era la Democrazia Cristiana e la notizia era se un partito aveva guadagnato il 2% alle elezioni. Basta per rendere l’idea?».
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