Guido Santevecchi per il "Corriere della Sera"
Li guardi sbattere l'avversario sulla balaustra, senti il crac della bastonata e pensi che siano tutti muscoli, nervi, cattiveria e denti rotti quelli dell'hockey su ghiaccio. Anche in clima olimpico. Oggi c'è il big match tra Cina e Stati Uniti, presentato dai commentatori americani come «sprovveduti (i cinesi) contro campioni (yankee)», gara da bagno di sangue in salsa mandarina. Poi, incontri Ivano Zanatta, l'italiano che guida la nazionale della Repubblica popolare e scopri tutta un'altra storia, quella della forza dei nervi distesi.
Il comitato olimpico cinese è stato così sportivo da accettare la presenza del Corriere a bordo pista, per l'ultimo segretissimo allenamento di rifinitura. Zanatta esce dal campo, dove ha appena raccomandato ai suoi «be patient»: con i ragazzi comunica in inglese, dato che la squadra di casa è piena di giocatori venuti dal Nordamerica. Una necessità, perché in Cina questo sport è giovane e ci sono solo mezzo migliaio di atleti di discreto livello. Per Pechino 2022 è stata fatta campagna acquisti all'estero.
Allora, coach Zanatta, questo «be patient» significa «portate pazienza» perché oggi sarete travolti? «No, se giochiamo è perché nella mente crediamo di far bene. Sappiamo di non essere quotati, ma siamo qui, abbiamo faticato e ci siamo guadagnati il diritto di partecipare alle Olimpiadi con il sudore. Ho raccomandato di essere pazienti tatticamente, di non innervosirsi per la responsabilità di rappresentare un grande Paese come la Cina», risponde pacatissimo l'allenatore nato nel 1960 a Toronto.
Ha alle spalle un'onorata carriera: come giocatore, è stato azzurro olimpico, ha vinto scudetti con Milano; poi ha allenato la nazionale italiana e squadre di club in Svizzera e Russia. E ora è qui, con una missione impossibile: evitare alla Cina l'imbarazzo di prendere una valanga di gol con le superpotenze dell'hockey Usa e Canada e poi con la Germania vicecampione olimpica, in un girone di qualificazione da incubo. Il mister italiano non si scompone quando gli chiediamo se sia un capitano di ventura alla guida di una squadra di mercenari.
«Essere stati chiamati da lontano ci dà più forza, più responsabilità e più orgoglio e poi in Nazionale ci sono giocatori nati in Cina e altri oriundi». Zanatta sorvola sul fatto che siccome neanche con gli oriundi avrebbe completato un decente «roster» di 25 giocatori, Pechino ha dato il via libera alle nazionalizzazioni di vecchie glorie americane e canadesi che in Cina non avevano mai messo piede. È il caso di Jake Chelios di Chicago, figlio di Chris, mito del Team Usa con qui ha fatto quattro Olimpiadi.
Jake, difensore, sognava di seguire le orme del padre, non ce l'ha fatta in patria e così ha accettato di cambiare passaporto e nome per indossare la maglia rossa: qui lo chiamano Jieke Kailiaosi (Jieke suona più o meno come Jake e Kailiaosi ai cinesi viene più facile di Chelios). Stessa procedura per Jieruimi Shimisi, meglio noto nella celebre Nhl americana come Jeremy Smith, portiere. Nonostante gli innesti, il rischio è che la rete di casa si riempia di dischi.
Mesi fa, quando gli Usa volevano portare a Pechino 2022 una nazionale stellare presa dalla Nhl, gli esperti avevano profetizzato un esagerato 50-0. Poi, causa coronavirus, il team a stelle e strisce verrà solo con i giocatori universitari, che sono comunque dei campioncini. Non c'è da immaginare che prevalga il fairplay olimpico: nel torneo conta la differenza reti e per i cinesi sarà dura. Se tutto dovesse andare secondo la logica della differenza tecnica, Smith/Shimisi subirà un tiro al bersaglio.
Ci saranno scintille da feroce scontro di civiltà hockeystiche sul ghiaccio? «No, sarà una partita corretta, i nostri oriundi hanno solo voglia di giocare e onorare questa maglia» dice il coach. E a chi non volesse credergli assicura: «Mi viene la pelle d'oca, quando sento suonare la "Marcia dei volontari", l'inno della Repubblica popolare».
In bocca al lupo a coach Zanatta e ai suoi diavoli rossi: cinesi, oriundi e nordamericani con il cognome tradotto in mandarino. Ricordiamoci che anche noi dobbiamo molto a un certo genio del pallone che di nome fa Jorge Luiz Frello Filho, meglio noto come «il professor Jorginho».