Giancarlo Dotto per La Gazzetta dello Sport
Juan è un ragazzo sereno. Lo si deduce da molte cose. La prima è la compostezza con cui ha sempre reagito prima a Milano e poi a Roma a certa ostilità ambientale, non certo per il colore della pelle, ma per i ripetuti deficit di attenzione, incomprensibili per un difensore del suo talento. Rispettato da compagni e avversari, zero stravaganze e nessuna sindrome delirante. Serenità e normalità non sempre bastano, in certi casi vanno incendiate dal coraggio.
Tra domenica sera e ieri Jesus ha sbagliato tre volte. La prima quando s’è limitato a confessare all’arbitro il fattaccio, la seconda, quando per stravincere da Re Magnanimo, ha preteso di assolvere l’eventuale peccatore dopo averlo denunciato, alias nascondere lo sporco sotto il tappeto, nel nome della vecchia regola mafiosetta «sono cose di campo».
La terza ieri sera quando ha raccontato nei social, evidentemente stizzito dalle reiterate negazioni di Acerbi, quello che avrebbe dovuto dire la sera prima davanti alle telecamere. Per giocarsi da anima bella Juan ha sprecato un’occasione. «Ci siamo parlati a fine partita.
Tutto risolto. Acerbi è un bravo ragazzo». No, Acerbi, se davvero ha detto quelle cose, è stato in quei cinque secondi un pessimo ragazzo. Nessuno contesta il fatto che gli umani s’insultino volentieri appena possono, nei campi e nelle redazioni, nei condomini e in fila alle Poste. Il punto è quando l’insulto è feccia.
Se sei un adulto e hai il controllo delle tue parole, se hai una minima percezione del contesto, devi sapere che dare del “negro” o dare del “frocio” in modalità sprezzante è feccia. Fa di te un razzista e un omofobo. Non importa se pensi quello che dici, quello che dici è quello che pensi. Tu diventi razzista nell’esatto istante in cui ti esprimi da razzista. Non hai bisogno di un pensiero. L’essere un razzista acefalo non ti assolve. Anzi, è un’aggravante.
Acerbi conosce le lezioni della vita. Ha superato con animo un cancro, ringrazia ogni volta qualcuno lassù a inizio partita.
La malattia, lo dice lui stesso, lo ha reso un uomo migliore.
Dovrebbe sapere (i social ferocemente insegnano) che anche la parola può essere un cancro. Può divorare intere esistenze. Sì, Juan ha perso una grande occasione. Avrebbe dovuto raccontare la sua verità a caldo, lasciando voce alla sua ferita. Avrebbe fatto la cosa giusta per sé, per gli altri e per lo stesso Acerbi. Consentirgli di smentire pubblicamente o, nel caso di ammissione, aiutarlo a uscire nel modo più dignitoso.
Che non sono le scuse. Le scuse sono parte della feccia. Non servono. Troppo facile. Come non servono (sì, okay, meglio di niente, ma sono niente) le tante mascherate per nettarsi l’anima, verniciarsi la faccia, recitare formulette, appendersi scritte, distintivi e belle parole. Serviva che Juan dicesse: «Acerbi mi ha dato del “negro”» e serviva che Acerbi negasse o che, in alternativa, chiedesse perdono o, in un mondo ideale, aggiungesse fieramente senza lacrime superflue: «Niente scuse. Sono stato un uomo pessimo. Ringrazio Jesus per aver reso pubblica questa cosa».
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A fronte dell’inevitabile sanzione, solo un premio per Acerbi: ascoltare a casa (ora potrà farlo) per una settimana intera il sublime “Strange Fruit” di Billie Holiday, dove lo “strano frutto” è il “negro” che penzola dall’albero, quando i bianchi erano liberi di linciare i negri.
Immagino il turbamento di Luciano Spalletti nel momento in cui apprende la notizia domenica sera a poche ore dalla partenza per gli Stati Uniti. Lui alla questione morale ci tiene, eccome. C’era solo da sbrogliare il dilemma. Portarlo in conferenza stampa a ingolfarsi di cenere o lasciarlo a casa?
Hanno fatto la scelta giusta. E non solo perché Acerbi (forse) una notte o per una vita intera diventerà intimo con Billie Holiday.
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