Antonio Barillà per la Stampa - Estratti
Antonio Sibilia, presidente dell’Avellino, squadrava lo spaesato Juary. Un lungo silenzio, poi si rivolse a Luis Vinicio, l’allenatore: «E questo sarebbe un attaccante? Ti do tre mesi, se non va caccio te e lui». Passarono due anni, diventarono padre e figlio. Jorge dos Santos Filho conquistò la Serie A con le sue danze attorno alla bandierina dopo i gol.
Lo scetticismo era dettato dal fisico, non raggiungeva il metro e settanta, però Vinicio voleva un contropiedista veloce e Sergio Clerici consigliò lui, cresciuto nel Santos e finito in Messico, all’Universidade de Guadalajara. Aveva segnato 18 gol in Brasile e giocato in Copa America, partecipato all’addio al calcio di Pelè, però in Italia nessuno sapeva chi fosse: correva il 1980, tv satellitari e web erano fantascienza.
Juary, quando seppe del trasferimento ad Avellino?
«Su un aereo per Roma, dove mi avevano convinto a salire con l’inganno: dopo qualche bicchiere di vino, Nicola Gravina, manager che mi seguiva fin da ragazzino, confessò».
Che bugia aveva raccontato?
«Che l’Universidade era interessata ad alcuni calciatori italiani e voleva li visionassi anch’io. Mi sembrava strano, ancor di più in aeroporto quando si presentò Floris, il segretario del club: mi dissero che doveva occuparsi delle spese».
Dopo qualche bicchiere…
«Gravina svelò la verità. “Dove cazzo è Avellino? Non ci vado” protestai, ma lui sorrise: “Sai volare? Perché paracadute non ce n’è».
Così si trovò nello studio di Sibilia…
«Dopo un viaggio in auto da Fiumicino. Ero incuriosito, inquieto, dubbioso. Invece fu la svolta della mia vita, Avellino diventò casa e il presidente un secondo papà: nei momenti bui c’era sempre, negli affari bastava una stretta di mano».
Da dove era partito?
«Da un barrio di São João de Meriti. Giocavo scalzo per strada interi pomeriggi. Mamma mi chiamava un sacco di volte per rientrare, io lo facevo solo a tarda sera e le prendevo ogni volta. Poi, dopo un po’ di futsal, a diciassette anni debuttai nel Santos. Il mio sogno, però, era fare l’avvocato».
Come era nato l’amore per la legge?
«Da una tragedia familiare. Quand’ero piccolo un mio zio fu ucciso e gli assassini non vennero scoperti, così mi ero messo in testa di fare un mestiere che potesse contribuire a far trionfare la giustizia».
Le tornò in mente quando Sibilia, una mattina, le chiese di saltare l’allenamento e accompagnarla a Napoli…
«Ci trovammo davanti al tribunale: pensai fosse una sorpresa legata a quel sogno».
Invece le presentò Raffaele Cutolo, boss di camorra.
«Mai visto, non potevo immaginare chi fosse. Il presidente disse che era un grande tifoso e voleva conoscermi. Ci scambiai due parole, ma nulla di più: la storia della medaglietta consegnata è un’invenzione».
Un’ombra polemica isolata in due stagioni meravigliose.
«I tifosi, la città mi adottarono. E la tragedia del terremoto ci unì ancora di più alla nostra gente. Volevamo portare un sorriso a chi aveva perso persone care o era rimasto senza un tetto. A volte, negli stadi ci urlavano terremotati: pensavano di offenderci, ci caricavano».
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La danza della bandierina nacque a Catania…
«No, quella fu la prima in Italia. Era nata allo stadio Morumbi prima di un derby con il San Paolo: Osmar Santos, giovane radiocronista, mi chiese di inventare un’esultanza in caso di gol, ne feci tre e ogni volta ballai sulla lunetta. Quella del Cibali fu la prima rete di uno straniero dopo la riapertura delle frontiere».
Dopo due anni, l’Inter…
«Mi presero, in realtà, per girarmi al Cesena e avere Schachner, ma l’operazione s’arenò e mi ritrovai a Milano. Faticai ad ambientarmi e non solo per il clima. Ricordo un gol al Catanzaro di cui, per la nebbia, ci accorgemmo solo io e l’arbitro. Il fatto è che ad Avellino ero un re, la squadra mi ruotava attorno e la gente mi coccolava: all’Inter, circondato da campioni, uno dei tanti».
Ripartì dalla provincia…
«Ascoli e Cremonese, pochi gol e tanti incontri preziosi: non dimentico la professionalità e l’umanità di Mondonico».
Sembrava il tramonto…
«Infatti volevo tornare in Brasile. Invece accettai un’offerta del Porto e fui ripagato da un’emozione unica: il Bayern di Rumenigge e Mattehus battuto in finale con un mio gol e la Coppa dei campioni alzata nel cielo di Vienna».
La Seleçao è un rimpianto?
«Mi fermai alla Copa America del ‘79. Non ho avuto fortuna. Una volta, in aeroporto, aspettando un volo per Rio, ho incrociato il ct Santana: io andavo a operarmi, lui era venuto in Italia per vedere me e Falcao».
Non ha avuto fortuna nemmeno da allenatore, almeno in Italia.
«Tanta periferia e risultati modesti, ma ho insegnato il rispetto e l’amicizia. Ora riparto dal Nautico, Serie C brasiliana».
Nel frattempo ha insegnato calcio ai ragazzini.
«Ho avuto belle soddisfazioni. Angelo e Washington, approdati al Chelsea, hanno lavorato con me nel Santos Under 13. A tutti ho insegnato che il calcio è divertimento, benché purtroppo non sia più così».
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Segue ancora la Serie A?
«Sempre, come il campionato portoghese e la Premier. E so tutto del mio Avellino. L’Italia è la mia seconda patria, mia figlia Carolina vive a Salerno».
Un altro dei suoi cinque figli sta invece in Portogallo…
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«Allenatore come me. Guida l’Under 14 del Vila Nova de Gaia».