Fabrizio Roncone per il Corriere della Sera - Estratti
Eccoci all’Olympiastadion.
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Gli azzurri entrano in ordine sparso per il «walk around», il rito del sopralluogo, e ad accoglierli trovano alcuni magnifici fantasmi.
Adesso, seguitemi. E provate a immaginare qualcosa di simile a un lungo piano sequenza: Donnarumma e Di Lorenzo parlano con Pellegrini, che annuisce, serio; Gatti, una maschera di stupore (tre anni fa, giocava con la Pro Patria, in serie C); Retegui, nell’incertezza di non metterci più piede, si scatta un selfie;
Scamacca, la faccia grigia, e grigi sembrano pure i tatuaggi che ha sul collo, è pensieroso, e soffia qualcosa a Chiesa; e poi però si vede Barella che tocca la spalla di Bastoni, lo invita a voltarsi e gli indica la porta, quella laggiù, dove in dissolvenza c’è Grosso che sta prendendo la rincorsa, e come ora in un gran silenzio, e tutti ci teniamo per mano, perché è l’ultimo rigore e Santo cielo, Lippi ha chiesto proprio a Grosso di tirarlo. Se lo segna, siamo campioni. E lo segna.
Cambio immagine. Luciano Spalletti è immobile, le mani in tasca, dietro la panchina di destra. I suoi calciatori in mezzo al campo e lui, defilato, che li osserva. Le pupille come fiammiferi, i muscoli del viso tesi, s’intuisce un labiale serrato. «Guardatevelo bene, ragazzi, questo posto. È qui che se si fanno le cose perbenino, noi poi si finisce comodi dentro qualcosa che si potrà raccontare ai figli». La verità è che se non stai attento, finisci per scrivere come parla il cittì. Però i suoi pensieri, se possibile, sono anche più intricati.
Stretti dentro un tormento calcistico che non immaginavano nemmeno i più spallettiani. Perché lui, all’inizio, aveva progettato di stupirci con schemi liquidi, con calciatori che non dovevano avere ruoli fissi. Ci ha perciò invitato a fantasticare, a credere in un calcio «perimetrale», tra spazi occupati e spazi da occupare, perché nel suo «calcio relazionale» la squadra è sempre corta, e accorta, capace di «tornare a casa», cioè di risistemarsi, e poi ripartire.
Tutto questo ha funzionato, e nemmeno troppo, contro l’Albania. Poi la Spagna ci ha preso a pallate e con la Croazia, sebbene tornati a schemi più italiani, familiari, semplici (diciamo un classico e prudente 5-3-2), abbiamo sofferto fino al minuto 98’. Il risultato è che sulla Moleskine ci sono appunti indecifrabili. È quello che abbiamo visto sul campo, tra lampi e un diffuso disordine tattico. La difesa a quattro, poi a tre, e di nuovo a quattro. Chiesa fuori, ma anche sulla destra a tutta fascia, oppure alto, a sinistra.
Pellegrini trequartista. O largo, finta ala. Prima Scamacca, quindi Retegui, e contro la Svizzera — probabilmente — ancora Scamacca. Fagioli? In coppia con Cristante? Tocca o no a El Shaarawy?
Un po’ tanto, un po’ troppo.
La confusione è sempre un eccellente alibi per i calciatori. Spalletti lo sa: così, per continuare a sperimentare soluzioni, ha cercato di chiudere la squadra dentro la scatola del campo d’allenamento. L’ha blindato. La Nazionale è, ormai da giorni, avvolta nel mistero. E quindi può esserci una sorpresa: tipo che c’è stato un clic, e magari succede come al Mundial spagnolo, quando la miccia tra gli azzurri di Enzo Bearzot s’accese dopo i primi tre pareggi deludenti. Oppure possiamo essere rimasti prigionieri dell’incertezza.
Di sicuro, non c’è allegria.
La sensazione è precisa anche osservando gli azzurri ora che escono dal campo, interpretando le loro smorfie, il linguaggio dei corpi. Non ridono, non scherzano. Sembrano pieni di quella certa preoccupazione non sana. Come se più che temere gli svizzeri, temano se stessi.
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Senza telefonare a Paolo Crepet: si chiama mancanza di autostima. Quella che, di solito, hanno invece tutti i gruppi vincenti. Prima, bevendo un caffè finalmente definibile caffè, si ricordava l’arrivo degli azzurri a Wembley, tre anni fa, la sera prima della finale.
Si presentarono cantando.
Donnarumma aveva attaccato il suo i-Phone alla cassa portatile di Florenzi. L’autista inglese del pullman, con mezzo ghigno: «They are all crazy».
No, amico, gli disse un anziano cronista: non sono matti.
Erano convinti di potercela fare.
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