Andrea Priante per corrideredelveneto.corriere.it
«Metà anni Novanta, io gioco nel Vicenza. Davanti a noi c’è il Padova ma non sto bene: per tutta la settimana ho fatto delle infiltrazioni per un forte dolore al piede. Mister Guidolin dice che devo stringere i denti, perché quella partita è importante. A un certo punto Nicola Amoruso si lancia in avanti, palla al piede. In pochi secondi è di fronte al portiere, sta per tirare ma io scatto, lo recupero e gli porto via il pallone un attimo prima che faccia gol».
Bella. Ma davvero crede sia questa l’azione più significativa di tutta la sua carriera?
«Aspetti, non è finita. A quel punto esco perché il dolore è insopportabile. La sera faccio la risonanza e i dottori scoprono che avevo giocato con una frattura al piede. Rimasi fermo per quattro mesi. È il genere di sacrificio che richiede il calcio. Uno dei tanti che devi essere disposto ad accettare».
Luigi Sartor, trevigiano, 46 anni, tra il 1992 e il 2009 ha vinto tre Coppe Uefa con indosso la maglia di Juventus, Inter e Parma, e due Coppe Italia col Vicenza e, di nuovo, col Parma. Ancora minorenne fu ribattezzato «Mister Miliardo»: mai prima di allora una società (la Juve) aveva osato pagare una cifra a nove zeri per il cartellino di un baby-calciatore.
Mentre pesca tra i ricordi degli anni dei trionfi, degli autografi e degli stadi pieni, è nella cucina del suo appartamento nel capoluogo emiliano dove sta scontando ai domiciliari la condanna a un anno e due mesi per detenzione di droga. L’hanno arrestato il 12 febbraio: con un complice coltivava piantine di marijuana in un capannone a Lesignano Palmia. Da allora, può uscire solo al mattino, per lavorare in una ditta di Parma.
Il calcio non lo segue quasi più. «Mia madre gestiva un negozio a Mogliano Veneto – racconta - papà era un militare dell’Aeronautica e lo vedevo solo la sera. Sono cresciuto tra i campi, le vigne. Da bambino ero piuttosto indipendente, fantasticavo di diventare un supereroe anche se sapevo che probabilmente sarei finito a fare l’idraulico o il fornaio».
Quando ha iniziato, invece, a sognare di fare il calciatore?
«Non l’ho mai sognato. Mi piaceva l’atletica, ero velocissimo. Ma i miei amici giocavano tutti a calcio e così, per non stare sempre da solo, mi presentai nel campetto dove si allenavano e chiesi se potevo entrare nella squadra. Avrò avuto 9 o 10 anni. Dopo qualche tempo passai alle giovanili del Padova».
Fu lì che la notarono i talent scout della Juve…
«A 15 anni un dirigente del Padova mi convocò, pensavo volesse cacciarmi perché avevo combinato qualcosa. Invece disse: “Andiamo a Milano. I tuoi genitori sono già avvisati e ci raggiungeranno”. Era la prima volta che salivo su un taxi. Arrivammo nella sede del calciomercato e parlammo a lungo coi dirigenti del Milan. Poi con quelli della Juve. Ricordo che guardavo mamma e papà cercando un consiglio e mio padre era come imbambolato, con lo sguardo nel vuoto. Due giorni dopo ero di nuovo su un taxi, stavolta diretto a Torino».
Adolescente, era già un giocatore strapagato.
«Tutti mi fissavano, sui giornali c’era la mia foto con su scritto “Ecco Mister Miliardo”. Fu uno choc. Ma parliamoci chiaro: non valevo quei soldi. Nessun calciatore di 15 anni li vale. Credo che le giovanili di Milan e Juve innescarono un’asta al rialzo inseguendo la logica di impedire alla società rivale di mettere le mani sui giovani talenti. Ad ogni modo il denaro finì tutto al Padova: io non venivo pagato. Avevo però uno sponsor che versava cinque milioni di lire ai miei genitori e mi inondava di materiale tecnico. Per guadagnare qualcosa, rivendevo le scarpette ai miei compagni per 30mila lire».
L’esordio con la prima squadra arrivò a 17 anni…
«Trapattoni entrò nello spogliatoio e mi disse: “Domani giochi con noi a Firenze”. Nello stadio mi tremavano le gambe, è una sensazione che non si può descrivere. Ero agitato, non mi sentivo pronto. Feci autogol e perdemmo due a zero».
Fu comunque il suo ingresso nel calcio che conta. Poi il passaggio alla Reggiana, ma poi anche all’inter, al Vicenza, all’Hellas… E la Nazionale. Sarà stato al settimo cielo.
«Il calcio non mi ha mai dato felicità. Gratificazioni tante, soldi anche. Ma non credo di essere mai stato felice in quel mondo.
Quando a 21 anni guadagni 200 milioni al mese, la prima cosa che accade è che ti ritrovi circondato da una pletora di persone che vogliono trascinarti in giro, che insistono per sfoggiarti come fossi un trofeo, per portarti a cena al ristorante che tanto poi il conto lo pagherai tu, perché sei ricco… Ma soprattutto, quelle persone ti danno sempre ragione. E quando ti abitui così, finisci con l’allontanare i veri amici, gli unici che avrebbero il coraggio di dirti quando stai sbagliando o di avvertirti se ti stai cacciando nei guai».
In quegli anni ha giocato con Baggio, Del Piero, Batistuta…
«Ho grande stima di loro, sono dei fuoriclasse. Io invece non mi sono mai sentito un campione: al posto dei piedi ho dei ferri da stiro, non ero bravo tecnicamente. Però ero velocissimo e ho costruito la mia carriera sempre sullo stesso schema: lasciavo entrare l’avversario e, quando si allungava la palla, io scattavo, lo affiancavo, lo superavo, e gliela portavo via. Tutto qua. Se li avessi affrontati frontalmente, gli attaccanti mi avrebbero probabilmente dribblato senza grosse difficoltà».
Prima accennava al cacciarsi nei guai… Il 19 dicembre 2011 finì in carcere per lo scandalo calcioscommesse, nell’ambito dello stesso filone in cui indagarono anche Beppe Signori.
«Fu drammatico, in un attimo la mia vita era distrutta. Mi sono sempre professato innocente e infatti il cosiddetto “gruppo di Singapore”, col quale avrei fatto da tramite per pilotare le scommesse in Asia, ne uscì pulito. L’intera inchiesta si è rivelata - in gran parte - solo una bolla di sapone. È lì che ho smesso di credere nella Giustizia».
Se la cavò pure lei, con la prescrizione. Invece Signori ci ha rinunciato e nei mesi scorsi, dieci anni dopo il blitz, è stato assolto.
«Volevo fare la stessa scelta, ma il mio avvocato mi disse: “Una prescrizione non si rifiuta mai”. Decisi di dargli retta. Col senno di poi sarebbe troppo facile dire che fu uno sbaglio».
Perché quest’anno s’è messo a coltivare marijuana?
«Ho fatto una cazzata, l’ho subito ammesso in tribunale. Quel mio amico mi disse che la cannabis serviva a suo padre, malato di cancro. Io andavo solo a innaffiare e di certo non mi sarei messo a spacciare droga…».
Quasi cento piante per le cure palliative di un’unica persona?
«Lo so, lo so… Ho sbagliato e, come vede, sto scontando la pena».
Per tante persone i calciatori sono dei modelli da imitare. Crede che la sua vicenda possa insegnare qualcosa?
«Vuole la morale della storia? Non c’è. O forse è quella che mi insegnavano mamma e papà quand’ero bambino: la vita ti mette davanti a scelte giuste o sbagliate, spetta a te imboccare la strada corretta. E se non ce la fai, alla fine, c’è sempre un prezzo da pagare».
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