Estratto dell’articolo di Maurizio Crosetti per www.repubblica.it
Ci sono allenatori di calcio bravissimi ad allenare anche i giornalisti, i dirigenti, il pubblico. A volte, diventano personaggi soprattutto per questo, diventano “guru” e capi popolo. Francesco Guidolin è stato l’esatto contrario: tutta sostanza. È stato, probabilmente, il più grande tra coloro che non hanno mai guidato una grande.
Si è seduto in panchina 555 volte: solo 7 tecnici, nella storia del nostro calcio, lo hanno fatto più di lui. Ha portato più volte in Europa l’Udinese e il Palermo, ma anche il Bologna e il Vicenza, dove ha conquistato la Coppa Italia. Ha vinto tre campionati di B su tre. Per motivare i giocatori, regalava loro libri di poesie e film. […]
Guidolin, perché ha smesso?
francesco guidolin con la coppa italia vinta con il vicenza
«Perché, dopo l’esperienza allo Swansea City nel 2016, ho sentito che l’energia stava un po’ evaporando. Mi sono preso una pausa, ho rifiutato offerte di club importanti, poi sono diventato opinionista televisivo e infine ho deciso che poteva bastare»
La ricordiamo ottima seconda voce nelle telecronache: e poi?
«Mi sono divertito a osservare il calcio da un altro punto di vista, ma con mia moglie abbiamo pensato che era tempo di dedicarci totalmente ai nostri nipotini che vivono a Londra, dove lavora uno dei miei figli. I bambini si chiamano Gabriel e Gia, lui ha 7 anni, lei uno e mezzo».
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francesco guidolin calciatore con il verona
Torniamo per un momento al Guidolin calciatore: che tipo era?
«Un centrocampista non male tecnicamente, ma pieno di fisime. Soffrivo lo sguardo dell’allenatore, pativo moltissimo le esclusioni e la fisicità degli avversari. Diciamo che, con me come tecnico, uno così avrebbe giocato poco».
Ma, crediamo, uno così con uno come lei sarebbe cresciuto.
«Forse, quel ragazzo lo avrei aiutato a dare il meglio che aveva e a non temere troppo il peggio. Mi è sempre piaciuto costruire i giovani, farli andare in campo presto: non c’è altro modo per formarli. Ho avuto incontri con persone importanti: più di tutti, Osvaldo Bagnoli. Ero il capitano del suo Verona che vinse il campionato di B e cominciò la scalata. Ero anche arrivato in Nazionale Under 21, però ho smesso presto, a 28 anni, colpa di un grave infortunio al ginocchio quando ero al Bologna».
Il calcio le manca?
«Il profumo dell’erba, un poco sì. Ma è giusto smettere prima che te lo facciano fare gli altri. Bisogna essere lucidi, la vita cambia. Un sogno, però, è rimasto: diventare osservatore a caccia di centrocampisti e attaccanti, se possibile nel nord Europa. Modestamente, quando valuto atleti in quei ruoli sbaglio pochissimo, forse perché sono stato centrocampista anch’io. Mi piacciono i numeri 10, le mezzepunte, i trequartisti, gli esterni, i falsi nueve, gli attaccanti forti di sponda».
Insomma, quasi tutto quello che il calcio italiano non ha quasi più.
«Non è proprio così. Esistono ottimi centrocampisti e un po’ meno attaccanti, anche se è vero che i Baggio, i Totti e i Del Piero non sono più nati».
massimiliano allegri francesco guidolin
Com’è stato il suo gioco?
«Mi ispirai a Sacchi e al suo 4-4-2, amo il calcio veloce, il pressing alto, l’aggressione, le ripartenze molto più del possesso palla. Ma non mi fossilizzo sugli schemi: a Udine, dopo Zaccheroni, non cambiai la sua difesa a 3. E sono stato tra i primi a usare la mezzapunta, anche nel 4-4-1-1. Amo la verticalità: così il pallone arriva molto più in fretta verso la porta avversaria. […] Se devo scegliere il tipo di calcio che oggi preferisco, direi quello di Jurgen Klopp».
Pensa che gli allenatori integralisti siano superati?
«Per me, lo sono sempre stati. Bisogna partire dalle qualità dei giocatori a disposizione: lo schema viene dopo. Attenzione, lo schema, non le idee».
Cosa fa la differenza in chi guida un gruppo?
«Saper entrare nell’anima degli altri, cercare di raggiungere il profondo, saperlo cogliere. Al penultimo anno all’Udinese eravamo già salvi a febbraio, e non troppo lontani dalla zona Europa. Così cercai su Internet qualche immagine tratte dai film in cui qualcuno prende il classico treno al volo, cogliendo l’occasione. Feci montare il materiale e lo mostrai ai ragazzi, dicendo: "Noi ora siamo qui, ma niente vieta di arrivare là. Proviamoci”. Ebbene, vincemmo le ultime otto partite e arrivammo in Europa»
C’è qualcosa di cui, in particolare, lei va orgoglioso?
«Penso di essere l’unico, tra gli allenatori che non hanno mai guidato una grande, ad essere arrivato otto volte nelle Coppe: quattro con l’Udinese, due col Palermo, una con Vicenza e Bologna. Con le attuali regole, dovremmo aggiungere il mio Parma che arrivò ottavo. E sono fiero della stagione 2011/2012, a Udine. L’anno precedente eravamo arrivati quarti, poi la società decise di cedere i pezzi migliori. Ebbene, nella stagione seguente finimmo al terzo posto. Inoltre, per mia scelta ho allenato tre volte in B, e per tre volte ho vinto. Come Bernard Hinault, che venne tre volte al Giro d’Italia e tre volte se lo prese»
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Perché non ha mai allenato una grande?
Dopo i risultati al Vicenza ci speravo, ma non avevo nessuno ad assistermi e non accadde. In seguito, dissi no al Napoli nel 2013 e all’Inter nel 2016, dopo Swansea, per ragioni diverse.
Pentito?
«Ma no. Sono orgoglioso di avere fatto comunque una buona carriera, mi hanno cercato in tanti anche se non sono mai stato, diciamo così, enfatizzato dai media. Non era il mio carattere. Forse, con immodestia, penso a Nibali che ha vinto Giro, Tour, Vuelta e molte classiche, eppure non è considerato tra i più forti di sempre in bicicletta. Non credo sia giusto».
Guidolin, il calcio azzurro è davvero così malmesso?
«No, e non avrei mai immaginato un Europeo simile. Perché con Luciano Spalletti siamo in buonissime mani, lui non ha avuto tempo, merita certamente una seconda possibilità. Non avrà molti convocabili, è vero, ma ci sono ragazzi forti: il calcio italiano è più di quanto sembra, e lo dimostrano anche i risultati nelle Coppe, ottenuti non solo per merito degli stranieri».
C’è ancora qualcosa che lei desidera fortemente?
«Veder crescere i miei nipoti, stare con loro insieme a mia moglie. A volte mi chiedo se siano ancora troppo piccoli per conservare il ricordo di me, e allora questi ricordi bisogna costruirli con loro, giorno per giorno, amandoli, giocando, facendoli ridere».