“DOPO OTTO ANNI DI SQUALIFICA PER DOPING, NON SONO SUPERMAN. FACCIO LE COSE CHE MI SENTO DENTRO, E A VOLTE NON BASTA” – ALEX SCHWAZER RACCONTA L’ULTIMA GARA TORMENTATA DALLA SCIATICA E CONCLUSA CON UN RITIRO: “HO CORSO PER I MIEI BAMBINI. NON ABBANDONO L’ATLETICA. IL MIO FUTURO? FARE L’ALLENATORE - "AI GIOCHI GUARDERO’ IL CICLISMO E QUALCOSINA DELL’ATLETICA. A TOKYO NON C’ERO RIUSCITO, STAVO ANCORA MALE”

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Gaia Piccardi per il "Corriere della Sera" - Estratti

 

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Santo o diavolo non lo sapremo mai, Alex Schwazer, però i suoi bambini, Ida e Noah, sono bellissimi.

«È merito di mia moglie Kathrin, mamma a tempo pieno. Ma dall’autunno, con i bimbi a scuola, riprenderà il lavoro di estetista».

 

Finalmente Ida e Noah, dopo 8 anni di squalifica per doping, l’hanno vista marciare.

«Il piccolo è un pericolo pubblico: parla con tutti, prende e va, non ha paura. La Ida è più come me: ha bisogno dei suoi momenti di solitudine e introspezione. Ci tenevo che mi vedessero ad Arco di Trento, venerdì scorso, nell’ultima gara».

 

Folle e tormentata: con la sciatica, fermandosi più volte, finita in lacrime tra le braccia della sua famiglia. Perché non rimandare?

«Avevo bisogno di indossare il pettorale un’ultima volta, davanti ai miei bambini. La Ida teneva il conto dei giorni sul calendario della scuola; non potevo deluderla. Io e lei abbiamo un rapporto molto emotivo, ha visto che per otto anni non mi sono mai fermato, mantenendo un livello di allenamento alto. Un totale di 50 mila ore in marcia: sono tante. No, non potevo rimandare, capisce?».

 

Era troppo importante.

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«Ida ha capito subito che il papà si allenava per tornare all’Olimpiade di Parigi, dopo aver saltato Londra, Rio e Tokyo. Purtroppo non è stato possibile. Mi ha sempre fatto un sacco di domande, ha vissuto con me il percorso, si è intristita quando il sogno olimpico è sfumato. Allora le ho detto: Ida, gareggio ad Arco. E ogni sera, avvicinandosi la data, quando andava a nanna cancellava un giorno sul calendario. Dirle che non ce la facevo per la sciatica, ecco, non me la sono sentita».

 

(...)

Ida e Noah cosa hanno compreso di quella psicoanalisi a cielo aperto?

«Il messaggio ai bimbi è arrivato: lasciando tutto in pista, come nella vita, si arriva dove le possibilità ti portano. Hanno capito che, dopo otto anni di squalifica, non sono Superman: non posso esserlo. Faccio le cose che mi sento dentro, e a volte non basta».

 

È vero che ha fatto fatica a trovare una società che la tesserasse, con la storia che ha alle spalle (due positività: la prima da reo confesso, la seconda ha fatto discutere il mondo)?

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«La società non è stata un problema, gli altri due atleti in gara nemmeno. Ma io l’ho detto subito: la faccio anche da solo, voglio rimettermi il pettorale, sentire lo sparo, fare la gara».

 

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Venerdì scatta Parigi 2024, l’Olimpiade dove avrebbe voluto chiudere. La guarderà?

«Guarderò il ciclismo, che mi piace tanto, e qualcosina dell’atletica. A Tokyo non c’ero riuscito: stavo ancora male. Non dimentico le cose belle: ai Giochi ho vissuto momenti irripetibili, l’adrenalina del traguardo me l’hanno data solo il matrimonio con Kathy e la nascita dei miei figli. Non voglio fare ragionamenti forzati. Non voglio essere triste».

 

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Chiuso con l’atletica, Alex, cosa le riserva il futuro? Il 26 dicembre saranno 40 anni.

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«Dall’atletica non mi ritirerò mai: ce l’ho dentro, non si può spegnere il fuoco. Sono un uomo libero: mi piacerebbe allenare atleti di altre discipline, portare esperienza e competenze in altri sport. Il futuro è la contaminazione: mischiare metodologie, ottenere quel marginal gain, quell’1% di performance che fa la differenza. Non ho titoli universitari ma leggo e studio. Se l’atletica non mi vuole, spero che il ciclismo o il calcio siano più aperti. Oppure le aziende e le scuole: ho molto da raccontare. Fino al 7 luglio ero fuori da tutto, ora posso essere un valore aggiunto per un club o un atleta».

 

E nel frattempo?

«Da ragazzo ho fatto il lavapiatti e il cameriere a Innsbruck. Non mi vergognerei di fare l’impiegato o l’operaio a Vipiteno. Ma mi conosco: sono più produttivo se mi sento utile in un ambiente sportivo».

 

Cosa ha imparato da tutta questa storia, Schwazer?

«Quello che ogni tanto mi ricorda la Kathy: fermati e respira, Alex».

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