Matteo Pinci per “la Repubblica” - Estratti
Le compagne l’hanno salutata indossando parrucche ricce come lei, e non è un caso: quei capelli sono diventati un simbolo riconosciuto anche all’estero. Sara Gama ha detto addio alla Nazionale dopo 140 presenze, una scelta drastica, ma meditata. «Lo sketch delle mie compagne con la parrucca lo racconterò per anni. Ci abbiamo scherzato tutta la sera. Poi la sera dopo a Coverciano abbiamo avuto un momento più intimo, ci siamo commosse».
Gama, quando ha capito che il calcio sarebbe stato il suo lavoro?
«Quando a 16 anni passai al Tavagnacco: mi diedero i primi 100 euro, mi sembrava incredibile mi pagassero per giocare, venivo dalla squadra dove avevo fatto due anni di giovanili prima di salire dalla Serie C alla B con la prima squadra: pagavamo la retta e i dirigenti erano tutti genitori. Ma quei soldi erano rimborsi spese, nella testa c’era l’idea di prepararsi a fare altro nella vita».
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A proposito di tennis: Sinner ha detto che odia i social e li usa solo per lavoro. Lei?
«Qualcosa di simile. Oggi dietro uno schermo ci si permette di dire cose che di persona nessuno avrebbe il coraggio di dire. Questo ha un impatto sulla vita dei calciatori, delle calciatrici: si propagano opinioni a macchia d’olio, questo incide sulla qualità di vita di atlete e atleti. Sono cose che possono fare molto male, anche gli eccessi positivi».
Una curiosità: è vero che le calciatrici si truccano prima di giocare?
«Alcune calciatrici si truccano prima di andare in campo, sì, ma perché fa notizia? I calciatori si pettinano, fanno la skin care e vanno dal parrucchiere, mica si curano solo le donne: il calcio ormai è anche molto immagine. È cambiato il mondo, prima che lo sport».
Lei il calcio ha provato a cambiarlo da dirigente: è tra chi ha inciso davvero per ottenere il professionismo femminile.
«Ho visto compagne lasciare la Nazionale per accettare offerte di un lavoro vero: l’idea era che una ragazza non potesse vivere giocando a calcio. O se sì, per quanto? Volevo far sì che non succedesse più».
Che effetto le fa essere stata un simbolo?
«Simbolo ti ci fanno diventare gli altri, riconoscendoti un ruolo. Io ho solo cercato di espormi per ciò in cui credevo e se lo fai capita di scontrarti contro qualcuno o contro qualcosa».
Contro chi si è dovuta scontrare?
«Sono tanti. Parlo di chi pensa che il calcio non si possa declinare al femminile».
Come quegli allenatori che, per criticare i propri giocatori, dicono che hanno giocato da femminucce.
«Se ne sono sentite. Ma sono il retaggio di idee che vengono da molto molto lontano. Il calcio femminile è nato con quello maschile in Inghilterra a fine ’800 ma poi è andato a singhiozzo. In Italia è nato solo nel 1933 a Milano, poi il fascismo lo ha bandito per l’idea che facesse male alle donne. Certe frasi arrivano da questa cultura, da questa ignoranza. Ma per cambiare questo retaggio ci vuole tempo».
Che effetto le fece vedere il bacio di Rubiales a Jenni Hermoso dopo la finale dei Mondiali?
«Chi non ha capito come bisogna rapportarsi con una atleta di alto livello è figlio dello stesso retaggio».
(...) L’esclusione dai Mondiali: dopo più di sei mesi, si è data una spiegazione?
«Ho le mie opinioni, ma mi piace parlare del presente. Mi tengo il bel ricordo di questa Nations League: abbiamo battuto le campionesse del mondo della Spagna, chiuso seconde davanti alla Svezia. Quel che è stato è stato, mi tengo le tante cose belle».
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