Uski Audino per “la Stampa”
«In prigione non sei nessuno. Sei solo un numero. Il mio era A2923EV. Non mi chiamavano Boris», racconta il campione di Wimbledon Boris Becker. Ha passato sette mesi nelle carceri inglesi, prima di essere rilasciato giovedì scorso. Un tribunale di Londra lo aveva condannato ad aprile a due anni e mezzo di reclusione per evasione fiscale e per aver occultato beni per circa 2,5 milioni di sterline nella procedura di fallimento.
Uscito prima del tempo, ieri sera Becker è stato intervistato per la prima volta dal suo rilascio dall'emittente tedesca Sat.1, in un colloquio fiume in onda durato oltre un paio d'ore. Nello studio Becker è accompagnato dalla giovane compagna Lilian de Carvalho Monteiro e proprio ricordando davanti agli spettatori gli attimi di addio prima della sentenza del tribunale londinese ha un momento di commozione e tace.
Dimagrito, scavato in viso, i capelli tornati biondo-rame come a all'inizio carriera e non più con punte biondo platino com' è di moda nel jet-set, la leggenda del tennis ha perso l'aria scanzonata di chi sfida il mondo e vince, di chi infila una conquista dopo l'altra e a cui tutto viene perdonato. Insieme a una giacca nera e una maglietta nera, Boris ha indosso un'aria penitenziale. «Credo di aver riscoperto la persona che ero prima. Ho imparato una dura lezione. Una lezione molto cara. Molto dolorosa.
PRIGIONE DI DI WANDSWORTH – BECKER
Ma l'intera vicenda mi ha insegnato qualcosa di importante e di buono. E alcune cose accadono per un motivo», dice il 55enne cresciuto nella provincia del Baden-Wuerttemberg, rimasto nel cuore dei tedeschi "il diciassettenne di Leimen" che nel 1985 vinse Wimbledon. Sei diventato un'altra persona?, chiede il giornalista Steven Gätjen. «No, sono la stessa persona, forse più umile» la risposta di Becker.
«Ho perso peso, è vero. E in prigione per la prima volta nella mia vita ho sofferto la fame». E il suo nome non lo ha protetto: «Ero un numero. E non gliene fregava niente di chi ero, anche quando firmavo non potevo farlo con il mio nome ma scrivendo il mio numero».
«Dopo la condanna in tribunale mi hanno portato direttamente in prigione - racconta Boris - senza un attimo per poter dire addio alla mia vita di prima, nulla di più brutale. Sono stato gettato in una cella con tante persone e avevo paura: «Qualcuno era lì per omicidio, qualcun altro era li per traffico di droga. Io mi sono ritirato in me e ho abbassato lo sguardo a terra», dice il campione del tennis. «Insomma mi sono dovuto confrontare con tutta un'altra realtà rispetto alla mia».
Le prime settimane la leggenda del tennis le ha trascorse nel carcere duro di Wandsworth prima di essere trasferito a metà maggio nella struttura di Huntercombe, vicino a Nuffield, nell'Oxfordshire. «La prima prigione era estremamente pericolosa e altrettanto sporca, lì incontri chiunque e ogni giorno sei impegnato a sopravvivere» ricorda Boris.
«Quando sono stato gettato in una cella con 25-30 persone avevo paura, per fortuna qualcuno mi ha riconosciuto. Questo fatto mi ha fatto sentire protetto». Andando in carcere, «avevo due paure: la cella doppia e le docce», racconta. La cella doppia perché «temevo che il mio compagno di cella potesse avere scatti d'ira o mi potesse minacciare. La doccia, perché ho visto tanti film «dove il bagno sembra il posto più temibile della prigione». Invece, contrariamente all'immaginario cinematografico, «c'erano delle docce a cabina e non ho visto altri uomini nudi», racconta Becker.
«La cella invece l'ho avuta singola», probabilmente la direzione del penitenziario ha pensato che qualcuno avrebbe potuto minacciarmi. Dopo qualche settimana la stella del tennis tedesco è stato trasferito nel carcere di Huntercombe, vicino a Nuffield, nell'Oxfordshire. Un detenuto come gli altri sì, ma non del tutto. A Huntercombe, un carcere di bassa sicurezza utilizzato per criminali stranieri prima della loro espulsione, Becker si è allenato regolarmente nella palestra della prigione e ha lavorato come assistente dell'allenatore del carcere, aiutando i compagni a mantenersi in forma.
Sul processo, l'ex tennista fa poche concessioni: «Sono sincero e mi guardo volentieri allo specchio. Prima della sentenza sapevo che le probabilità di condanna erano cinquanta e cinquanta. Ho cercato di spiegare la mia innocenza durante le tre settimane di durata del processo, ma non ho mai ammesso la mia colpevolezza e non so se questo sia stato apprezzato» perchè «forse non ho mostrato abbastanza pentimento». Ma la colpa non è della giudice inglese, «lo voglio sottolineare» dice. Piuttosto è stata la giuria a condannarlo: «Metà dei giurati era sotto i trenta anni e non sapeva nemmeno chi fosse stato Boris Becker».
BECKER 56 BORIS BECKER E LA MADRE