Flavio Vanetti per corriere.it - Estratti
Eddy Ottoz, nome storico dell’atletica, re dei 110 ostacoli, di che cosa sono pieni gli 80 anni che compie domani 3 giugno?
«Sono pieni… di anni. Ma anche di gioie. Sono pessimista, come lo era mio padre, il bicchiere è sempre mezzo vuoto. Però il vantaggio è che le cattive notizie non mi sorprendono».
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Che cosa si prova ad aver visto il proprio record battuto da un figlio, 26 anni dopo?
«Un senso di sollievo: quel primato era diventato un peso per tutti. Laurent ha avuto la fortuna e la disgrazia di dedicarsi alla disciplina del papà: avrebbe potuto avere una carriera migliore».
Lei, Ito Giani e Sergio Ottolina: una banda dedita alle burle. A Formia faceste credere che ci sarebbe stato uno show di parà, con atterraggi sul campo del Centro di Preparazione Olimpica.
«Era l’1 di aprile… Alle 14 affluì la gente, il direttore si barricò in ufficio. Giani si vestì da militare e prese un megafono, Ottolina indossò un costume da bagno del 1800, Wurzer si spacciò per giornalista. Si unì pure Panatta… Alle 16 il cielo si coprì: annunciammo il rinvio dello show. Ma l’aeroporto di Pratica di Mare era vicino e arrivò un aereo. Prendemmo una scala, Ottolina salì e saltò con un ombrello aperto dentro un cerchio definito dalla carta igienica. Il pubblico voleva menarci».
Dopo i Giochi del Messico avevate progettato un raid in moto di due mesi per gli Usa: Easy Rider all’italiana…
«Carlo Laverda era in Nazionale. A Breganze la famiglia costruiva moto: ne acquistammo una rossa, una bianca e una verde, il Coni ce le spedì. Ma ci furono due intoppi. Io avrei dovuto sposarmi con Lyana Calvesi, figlia di Sandro, mio allenatore: volevo farlo in Messico dopo il tour, ma il futuro suocero mi disse “col cavolo”. Giani, invece, si era scordato del servizio militare. Provò a rinviare, ricevette un “col cavolo” pure lui».
Quindi il raid lo fece solo Ottolina.
«Ma io accompagnai Ito fino a New York, risalendo dalla Florida e lottando con tempi strettissimi. Margarita De Anda, una volontaria, ci invitò ad andare, a Queretaro, in un ristorante. Arrivammo con le tute sporche e piene di moscerini: nel locale erano in giacca e cravatta. Scoprimmo che Margarita era la padrona ed era figlia di un ministro».
Ci fu anche un guaio con la moto.
«In Texas. Mi avevano messo zucchero nel serbatoio, la Laverda si piantò. Trovai un’officina che poteva aggiustarla e in Italia appresi che fu uno scherzo di Giovanni Cornacchia per vendicare Gianni Del Buono. Il motivo? Scattavo foto al villaggio olimpico e spedivo i rullini a Roma. Aldo Durazzi sviluppava e vendeva ai giornali: io prendevo il 50%.
Ci fu una vicenda dopo la quale Donata Govoni finì in lacrime e Del Buono la consolò tenendola sulle ginocchia. Feci anche quella foto. Sul giornale il titolo fu: “Idillio al villaggio”. La fidanzata di Del Buono lo mollò con un telegramma, Cornacchia lo vendicò sabotandomi la moto».
Il bronzo olimpico avrebbe potuto essere qualcosa di più?
«Sì e no. Sandro Calvesi era in guerra con la Fidal e non era lì. Dovetti arrangiarmi. Partii a palla, osando il giusto: se avessi controllato, sarei finito quinto; se avessi forzato forse avrei vinto, ma avrei anche rischiato il disastro. Andò bene così».
Invece nel 1964 a Tokyo si era ritrovato con gli occhiali bagnati. Arrivò quarto: la medaglia di legno è dura da accettare?
«La medaglia di legno è espressione coniata da chi non ha mai preso nemmeno quella di marmellata. Io ero sconosciuto, ma una chance c’era. A patto di avere gli occhiali: invece li dovetti togliere, corsi… a memoria».
Sempre in Giappone, alle Universiadi 1967, sfilaste in mutande davanti all’Imperatore.
«Nel tunnel verso lo stadio ci levammo i pantaloni e li riponemmo su un braccio. Davanti alla tribuna d’onore ci girammo con fare marziale, lanciando un coretto irripetibile per Primo Nebiolo. Tramite l’interprete, Nebiolo spiegò all’Imperatore che avevamo fatto un rito risalente al 1200, pensato per lui».
Ai Giochi 1968 lanciaste la moda dei gavettoni.
«La lavanderia usava sacchi adatti a essere riempiti d’acqua. Salivamo sul terrazzo della palazzina, uno stava a cavalcioni del bordo, un altro lo teneva per una gamba e gli passava il gavettone, un terzo gestiva il lancio da una scala: il sacco doveva cadere davanti alla vittima. Tanti ci imitarono, ma i polacchi furono presi a sassate dai giamaicani e gli australiani ebbero le bici sfasciate da un pesista inglese che avevano ferito».
Voi a momenti accoppavate il ginnasta Franco Menichelli, oro a Tokyo.
«Sulla vicenda Menichelli io non c’entravo. Andò comunque così. Ci impedirono di usare le buste della lavanderia, rimediammo con i sacchetti delle scarpette da corsa, pesanti una volta pieni d’acqua. Con Menichelli sbagliarono mira: colpito in testa. Si riprese, ma in gara si ruppe un tendine d’Achille. Fu la nostra salvezza: se avesse perso avrebbero dato la colpa al gavettone».
Rita Pavone fu invece innaffiata con un idrante.
«Venne a trovarci in vista di uno spettacolo. Ottolina si era appollaiato su una pianta e quando lei transitò la infradiciò. Panico generale, la asciugammo in infermeria. Arrivò Ferruccio Ricordi, in arte Teddy Reno, suo marito, e urlò un tremendo “vi ammazzo tutti, vi chiedo 100 milioni di danni”. Ma Rita poté cantare: rimanemmo amici».
Il secondo oro europeo, nel 1969 ad Atene, nacque da una sconfitta all’Arena?
«Sì. Dopo i Giochi 1968 avevo smesso e lavoravo. Ero a Milano, decisi di seguire la “Pasqua dell’atleta”. Scoprii dai manifesti… di essere iscritto. Accettai di correre, facendomi prestare tutto. Ero in testa, poi mi piantai e mi arrabbiai. Telefonai a mia moglie: “Prepara la valigia, torno a Formia”. Andai pure negli Usa ad allenarmi e ad Atene vinsi. Però rimediai un infortunio. Scesi male dall’ultimo ostacolo, tagliai per miracolo il traguardo: oro con distorsione del ginocchio sinistro. Fui portato in trionfo, ma urlavo. L’ultima mia gara è stata comunque la più bella».
Giordano Bruno Fabjan, segretario generale del Coni, andò in pensione e le scrisse: «Avrei dovuto punirla di più, ma con lei mi sono divertito».
«Prendevo una multa al giorno e mi ero complicato la vita perché avevo respinto la Croce di Cavaliere. Quando fu data a una squadra di calcio l’avevano assegnata pure ai massaggiatori. Mi pareva uno svilimento. Quindi il giorno in cui la diedero a me, la resi».
Come andò a finire?
«Fui invitato a pranzo dal presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat. Mi disse: “Volevo vedere in faccia chi ha rifiutato la Croce di Cavaliere”. Gli spiegai il motivo e commentò: “Sa che l’avrei fatto anch’io?».
Lei ha avuto anche esperienze in politica.
«Sono stato in Consiglio Regionale, con l’Union Valdotaine. Due volte primo degli esclusi, ma la prima entrai perché il presidente fu dichiarato inelegibile e la seconda per la nomina a senatore di un consigliere. Sempre nella seconda occasione, passai a Forza Italia. Imitai il Brecht di “Madre Coraggio e i suoi figli”: “Ci sedemmo dalla parte del torto perché gli altri posti erano occupati”».