Gaia Piccardi per corriere.it - Estratti
Sei Novak Djokovic, sei stato capace di iniettare una molecola di cianuro nella perfezione della formula chimica dell’acqua — due atomi di Federer e uno di Nadal —, fino ad avvelenare il duopolio più clamoroso della storia del tennis e ti fermi dopo 370 vittorie Slam, un record assoluto, per colpa di un menisco del ginocchio destro che cede all’usura e agli urti della vita.
Dove non sono riusciti Lorenzo Musetti e Francisco Cerundolo, i due coprotagonisti delle imprese del re spodestato che lo hanno tenuto in campo per 9 ore e 8’ in due giorni, colpisce implacabile la risonanza magnetica che decreta ciò che il migliore non avrebbe mai voluto sentirsi dire: lesione evidente, au revoir Roland Garros dei sogni.
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Il sorpasso italiano è avvenuto in modo surreale, con un comunicato stampa del torneo che alle 16.53 ha annunciato all’orbe terracqueo tennistico il ritiro ufficiale del serbo. In quel preciso momento l’erede designato era sul 5-4 della sfida dei quarti di finale con il bulgaro Dimitrov, fatto il break è andato a servire per chiudere l’incontro e lì ha tremato («Normale tensione in un momento decisivo» l’ha definita Jannik), subendo l’aggancio del rivale. Non sapeva nulla, Sinner. La notizia più annunciata dello sport moderno è rimasta un segreto ben custodito anche davanti a 15 mila spettatori interconnessi con Internet e i social.
Meglio così.
È utile sottolineare che Novak Djokovic si accomiata dalla vetta del ranking che ha abitato per 428 settimane (non consecutive: mai nessuno più di lui) da campione. Si è lamentato della terra del centrale di Parigi, è caduto, si è rialzato, ha recuperato due partite compromesse che chiunque altro avrebbe perso contro rivali molto più giovani ma ormai, a 37 anni compiuti il 22 maggio, chiunque lo è. Il punto è proprio questo.
A cancellare dal Roland Garros e dalla vetta della classifica mondiale l’uomo di Belgrado non è stato un essere umano. È stata una nozione che organizza le vicende di noialtri, il cui fluire è inarrestabile.
Tempo, lo chiamano.
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