Maurizio Crosetti per la Repubblica
È bella la voce di Gianluca Vialli mentre ride e racconta cose vive.
Proprio adesso, in questo tempo di buio e paura. Entrano nel telefono anche le voci delle sue bambine.
Luca è a Londra ma vorrebbe essere qui, con noi. Ed è anche nel televisore, con la maglia della Juve e della Nazionale: sono le immagini delle vecchie partite trasmesse a rullo dai vari canali per tenerci contenti, per non farci dimenticare la meraviglia dello sport. Cose che aiutano a resistere.
Luca, "come stai" è diventata d' improvviso una domanda diversa.
«È vero, non è più soltanto un convenevole. Abbiamo bisogno di sapere se le persone stanno ancora bene».
E lei come sta?
«Bene, grazie. A dicembre ho concluso diciassette mesi di chemioterapia, un ciclo di otto mesi e un altro di nove. È stata dura, anche per uno tosto come me. Dura, dal punto di vista fisico e mentale. Gli esami non hanno evidenziato segni di malattia. Sono felice, anche se lo dico sottovoce».
Cosa significa ritrovare la salute?
«Significa vedersi di nuovo bene allo specchio, guardare i peli che ricrescono, non doversi più disegnare le sopracciglia con la matita. In questo momento, può sembrare strano ma mi sento quasi fortunato rispetto a tanta gente».
La sua Lombardia è ferita.
«Provo un senso di colpa per non essere lì, anche se le mie condizioni non lo avrebbero permesso. Penso alle persone portate in ospedale e morte sole, ai loro parenti costretti a casa, ai funerali non celebrati: è terribile. Una prova estrema, uno strazio. E resteranno enormi cicatrici affettive, morali ed economiche. La vita di ognuno cambierà e per tantissima gente è già cambiata, purtroppo».
Come si combatte la paura di morire?
«Pensando ai desideri, concentrandosi su quanto ci piace davvero, e su quanto vogliamo che ogni cosa ritorni. Non bisogna sentirsi egoisti e non si deve permettere al cervello di andare da un' altra parte».
Molti parlano di battaglia, di guerra.
«Nel mio caso è un viaggio. Un percorso di introspezione, un' opportunità. La malattia è un' esperienza di cui avrei fatto volentieri a meno, però è successo e allora cerco di metterla a frutto».
Si diventa migliori?
«Si diventa quello che si è».
Questa malattia mondiale ci obbliga a cercare spazi dentro di noi.
«È una prova tremenda ma non certo inutile. In questo enorme silenzio che ci circonda, quasi un' atmosfera zen, c' è qualcosa di orientale. E si tornano a sentire gli uccellini persino in una megalopoli come Londra. Si passa più tempo con le persone che amiamo. Io leggo molto, parlo con gli amici e sto anche imparando a scrivere al computer con dieci dita».
Cosa significa veramente, per milioni di persone, dover rinunciare allo sport?
«Lo capiremo quando tutto tornerà.
E quando la bellezza dello sport e del calcio, le emozioni e i ricordi ci aiuteranno a tornare a vivere, vivere pienamente. Sarà un esercizio di piacere e bellezza: sarà stupendo. E dovremo dare più spazio alla solidarietà: non recinti più alti, ma tavoli più lunghi. Le società di calcio dovranno essere anche piattaforme di sviluppo sociale, un luogo condiviso dal quale ripartire».
Non pensa che abbiamo trascurato per troppo tempo il senso e il significato dei nostri corpi, estetica a parte?
«Sì, è così. Vorrei che la famosa frase "quello che conta è la salute" diventasse davvero centrale. Vorrei che non accettassimo più nessun taglio alla sanità pubblica. Vorrei che non crollassero più i ponti, e che la sicurezza delle persone diventasse prioritaria. Vorrei che ci ribellassimo a queste città piene di smog che uccide: e qualcuno aveva addirittura preso in giro quella magnifica ragazzina, Greta».
Abbiamo imparato ad apprezzare i medici e gli infermieri. Credo che lei lo avesse già fatto.
«Sono i mestieri della vera empatia. Persone che entrano nella testa di chi soffre, persone generose, disponibili, dotate di incredibile forza fisica e psichica. Non dimentichiamolo, quando tutto sarà finito».
Lo sa che in tivù passano anche le sue vecchie partite?
«Ne sono felice, spero di poter dare un piccolo aiuto emotivo a qualcuno. La bellezza del calcio è anche questo, in fondo è senza tempo. Succede anche a me quando rivedo le partite in bianco e nero dei miei idoli».
L' altra sera, per esempio c' era lei che alzava la Coppa dei Campioni.
«Era la mia ultima gara con la Juve, volevo togliermi l' ossessione: nell' ultima con la Sampdoria, il trofeo l' avevo perso. Io so cosa proverebbero Chiellini, Buffon e Bonucci se ci riuscissero».
È pesante, la coppa? Non metaforicamente.
«Abbastanza, ma in quel momento la devi trattenere perché alzandola non voli via. Diventa una piuma, un palloncino».
Tra la Juve e la Champions ci si è messo pure il virus. Le sue mani resteranno le ultime ad averla sollevata?
«Da anni mi auguro che non sia così.
Ai miei tempi, però, era più difficile portarla a casa: il primo anno dovevi vincere lo scudetto, e quello dopo la Coppa».
Ne parla come se fossero passati dieci minuti, non ventiquattro anni.
«Eravamo più giovani, e questo rende tutto più bello. Ma quel brivido è lo stesso, è intatto: la vertigine di una cosa fantastica che non finisce mai».
Se fosse ancora bianconero, lo vorrebbe uno scudetto a tavolino?
«No, non questo. Non dopo quanto sta succedendo. Se si potrà chiudere la stagione in qualche modo, in totale sicurezza, bene. Altrimenti, meglio non assegnare il titolo».
Non sembra ci sia grande unità di intenti nel calcio italiano.
«Si dovrebbero dimenticare gli interessi di parte e gli egoismi, anche se capisco i presidenti alle prese con una crisi mai vista. Qualcuno per forza di cose ci rimetterà. Un errore da non commettere è la fretta. Si abbia fiducia nelle competenze di quelli che se ne intendono e ci dicono cosa fare: preghiamo che lo sappiano davvero. E si torni in campo solo quando i medici e gli esperti diranno che è possibile, anche se sono io il primo a desiderarlo. Ma nel frattempo occorre un atto di responsabilità generale, al di là dell' emergenza dell' intero sistema».
Che vacillava parecchio già prima della pandemia.
«Purtroppo il calcio italiano dimostra poca capacità di assorbire i colpi, servirebbe maggiore solidità.
Anche se, ne sono consapevole, stavolta sarà molto difficile sostenere i conti».
Fa effetto leggere di stipendi tagliati ai calciatori.
«Il sacrificio dovrà essere sostenuto da tutti, non solo dagli atleti. Mi sembra interessante quello che accade qui in Inghilterra, dov' è stato creato un fondo di solidarietà alimentato da una quota dei guadagni dei giocatori: i fondi li distribuiscono loro, direttamente alla sanità pubblica».
Da noi si litiga sui soldi, invece.
«I calciatori inglesi hanno scelto la via della solidarietà perché sanno che il taglio delle loro paghe significa meno tasse: e le tasse si versano per il bene comune, per finanziare i servizi di cui una collettività ha bisogno».
Ha sentito che forza, la regina Elisabetta?
«Lei è incredibile: poche e misurate parole, ma quando accade la nazione si alza in piedi e ascolta senza fiatare. Il discorso della Regina è stato per gli inglesi un' iniezione di pura energia, adesso hanno tutti più fiducia».
Il 2020 senza sport significa anche il rinvio degli Europei: meglio o peggio, per gli azzurri?
«Avranno un anno in più per calarsi davvero nel Club Italia, per sentirsi più forti e non voltarsi verso la panchina, cioè verso Roberto, quando le cose si mettono male. Un anno di crescita servirà».
Lei è tornato da poco in azzurro, nel ruolo di team manager che un tempo ricoprì Gigi Riva: che significa per Vialli?
«Moltissimo. Roberto Mancini ha svolto con autorevolezza un lavoro spettacolare, ha preso in mano la squadra in un momento molto delicato, ha portato idee di gioco senza fare cose troppo complicate, ha scelto un gruppo giovane con qualche prezioso veterano e ora si ritrova giocatori che hanno, tutti, quattro caratteristiche essenziali: sono altruisti, coraggiosi, continui e affamati. Il presidente Gravina ha creato l' atmosfera di un vero club. A volte, quando un giocatore ha qualche problema fisico preferisce rimanere con noi in gruppo, e questo conta».
Peccato, però, non poter sfruttare Immobile in stato di grazia.
«Questo sì. Lui metteva dentro tutti i palloni che toccava, mentre Belotti aveva proprio bisogno dell' Europeo per ritrovarsi. Pazienza, aspetteremo un anno. E nell' attesa, ogni azzurro potrà impossessarsi di più del progetto».
La Federcalcio ha deciso di giocare una partita a Bergamo: azzurri contro medici e infermieri.
«Quel giorno sarà un grande giorno».
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