Gian Antonio Stella per il Corriere della Sera
A Tana Toraja, nell' isola di Sulawesi, in Indonesia, tra monti terrazzati a riso, giungle rigogliose e orti di carote, i funerali possono durare anche anni. Quando c' andammo noi, un po' di tempo fa, ce n' era uno in corso da diciotto .
L a morta, una ricca matrona destinata a restare, diciamo così, temporaneamente mezza-viva fino alla conclusione delle interminabili cerimonie funebri, era lì rappresentata in una specie di grande tabernacolo da una statua di legno, con la sua faccia, i suoi vestiti, i suoi bracciali e i suoi occhiali a cavallo del naso.
Ogni tanto, ci spiegarono, arrivavano da ogni dove i suoi parenti e amici, prendevano alloggio in una delle ampie capanne «provvisorie» sparpagliate per gli ospiti tutte intorno, ammazzavano un po' di bufali e di maiali, mangiavano, bevevano e benedicevano la defunta. Se nel frattempo la signora sia «morta» davvero per esaurimento dei soldi o della riconoscenza, non sappiamo. Certo doveva essere stata, in vita, molto amata. O molto rispettata.
Sono millenni che l' umanità intera, da una parte all' altra del pianeta, mostra rispetto verso i propri morti. Spiegò anzi Confucio nel Libro dei riti ( Lijì ), che «un pappagallo può imparare a parlare, ma resterà comunque un uccello. Una scimmia può imparare a parlare, ma resterà comunque una bestia priva di ragione. L' uomo che non si attiene ai riti, benché possieda la favella, ha il cuore di un essere privo di ragione. (...) Così i grandi saggi apparsi nel mondo hanno formulato le norme di condotta per ammaestrare gli uomini e per consentir loro di distinguersi dalle bestie tramite l' osservanza dei riti». Primi fra tutti quelli funerari.
Riti scanditi nei secoli dei secoli attraverso forme e costumi diversi. «Già l' uomo di Neanderthal, diciamo centomila anni fa, non buttava via i morti come carcasse di animali», spiega l' archeologo Fabio Martini, da anni al lavoro sulla necropoli preistorica di Romito, in quello che oggi è il parco del Pollino, «e l' homo sapiens , intorno a quarantamila anni fa, già dava sepoltura ai defunti con oggetti vari, ossa, monili, che davano a ciascuno la propria identità». Non è un caso se le fosse comuni, come quelle viste ad Auschwitz, Srebrenica o giorni fa ad Hart Island, nel Bronx, hanno destato sempre raccapriccio. Lì c' era l' insulto finale, la cancellazione dell' identità.
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Scriveva Boccaccio nel Decamerone , inorridito da quanto visto coi suoi occhi durante la peste del 1348: «E infinite volte avvenne che, andando due preti con una croce per alcuno, si misero tre o quatro bare, dà portatori portate, di dietro a quella: e, dove un morto credevano avere i preti a sepellire, n' avevano sei o otto e tal fiata più.
Né erano per ciò questi da alcuna lagrima o lume o compagnia onorati; anzi era la cosa pervenuta a tanto, che non altramenti si curava degli uomini che morivano, che ora si curerebbe di capre». Uno sdegno non diverso, spiega Eugenia Tognotti nel saggio La «Spagnola» in Italia (Edizioni FrancoAngeli), da quello provato dai milanesi alla vista dei poveretti uccisi dalla pandemia del 1918 e sistemati in due depositi al Monumentale e alla stazione ferroviaria di Porta Romana.
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Per non dire della Napoli descritta da un padre sconvolto in una lettera al figlio fuggito in America: «Dalle 7 di sera fino alla mattina non vi è una goccia d' acqua con un caldo africano che si sta soffrendo e il Municipio tace, sui cimiteri sono ammonticchiati cadaveri e aumentano giorno per giorno...». E ti chiedi: ma c' è ancora, oggi, quella indignazione che squassava le coscienze allora? Mah...
«La foto che ha fatto il giro del mondo, la colonna infame dei camion militari coi fari accesi tra i semafori che lampeggiano nel nulla», ha scritto giorni fa Francesco Battistini in un duro atto d' accusa sui cortei di automezzi carichi di morti portati via dalle province più bastonate dal coronavirus, «è tutto ciò che oggi la pandemia ci permette: un funerale di Stato senza Stato, né bandiere né fanfare, né presidenti né preti, niente lacrime e parenti». Immagini raggelanti. Accompagnate da tormenti: «Non so ancora dove sia finito mio papà...». «Non so ancora dove abbiano portato mio marito...».
Per giorni e giorni. Ventiquattro camion dalla sola Bergamo. Con 486 salme verso 15 diversi inceneritori. Fino all' altro ieri. E non è ancora finita...
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Bisognava farli di giorno quei cortei, ha detto il filosofo Umberto Galimberti al «Corriere del Veneto», «in modo che fosse chiaro, che la gente si rendesse conto della gravità della situazione. Ma siccome la cultura occidentale ha rimosso la morte, si è ritenuto opportuno di cercare che la gente non vedesse le bare.
Che non vedesse la morte nella catastrofe generalizzata. Non abbiamo più capacità critiche per comprendere la morte, data la nostra rimozione». Parole simili a quelle usate, in un' intervista a Silvia Truzzi, dallo storico Franco Cardini: un tempo «morte e malattie erano più comuni, più vicine. La modernità ha portato con sé una sorta di diffusa volontà di potenza che confligge col nostro pur vantato razionalismo: la morte si rifiuta, si nega, si dissimula, si eufemizza, si nasconde grazie a un complesso sistema di segregazione socio-simbolica per cui gli ammalati vengono nascosti e i funerali travestiti il più possibile da eventi non luttuosi. Nel Medioevo e nella prima età moderna, fino al Settecento, si reagiva viceversa ostentando: penso ai trionfi della morte, alle danze macabre.
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Era un modo di rassegnarsi, ma anche di "addomesticare la morte" che oggi, negata, torna "selvaggia"». Estranea. Emarginata. Come facesse parte, per dirla con papa Francesco, della «cultura dello scarto».
Un rifiuto insultante. «Visto che la morte è solo la cessazione di un certo stato di vita, essa non esisterebbe se non esistesse la vita», scrive François Cheng, scrittore e poeta cinese, nelle Cinque meditazioni sulla morte (Bollati Boringhieri). Di più: «Paradossalmente la morte corporale, che è ineluttabile, rivela la vita come il reale principio assoluto. C' è una sola avventura, ed è quella della vita». Solo rispettando l' una si può capire l' altra.
E non si dica, per favore, che tutto ciò che abbiamo visto in quei cortei carichi di bare è dovuto «solo» alla stramaledetta polmonite da Covid-19. Non è così, purtroppo. Gli archivi sono pieni di inchieste giudiziarie, da una parte all' altra della penisola, che raccontano in tempi «normali» di ceneri perdute, ceneri mischiate, ceneri trovate tra i rifiuti, trafficoni sbattuti in carcere per aver «buttato in sei bidoni le ceneri di almeno duemila corpi» Un degrado figlio d' una storia lunga lunga. Dove è stato smarrito anche il senso dell' ultima strofa dell' amarissima Livella di Totò: «Nuje simmo serie...
/ appartenimmo à morte!».