Giancarlo Dotto per Dagospia
Stanotte ho sognato la Bortone. Un incubo. Giuro. Mi sono cagato sotto. La chiamano Serena, ma comandava un plotone d’esecuzione. All’inizio stavo dentro un sottomarino e mi chiamavo Capitan Memo, quello di Ventimila seghe sotto e sopra i mari prima di sentirmi innamorato e strano a Milano, poi mi ritrovo di colpo in una tela di Francisco Goya e c’era lei la Bortone che mi sparava al petto davanti a una telecamera. Sembrava Giovanna d’Arco.
Sopravvissuta al rogo, era lei stessa il rogo. Mi accusava, in pratica, la Ciclope, buttando fiamme, collera e olio bollente dall’unico occhio d’aver mollato una palpatina di soppiatto a una ragazza del circo, con la stessa manina tremula e lievemente parletica, certamente patetica, con cui di solito vado palpeggiando e palleggiando il mio teschio e la dozzina di vermi (tali sono fino a che non diventano verbi) che alloggiano di solito nelle tasche dei vecchi decrepiti. Sai, la vecchia storia del “Memento mori”, “devi morire!” (molto in voga negli stadi degli anni per l’appunto ’70, ’80, per non dire ‘90), da cui il nome del protagonista, Memo. Lo smemorato Memo.
Ma anche la storia di “una mano lava l’altra”. Una mano palpa teschi e vermi (da cui l’espressione “mano morta”) e l’altra sfiora i culi di giovani donne, il cui eventuale consenso, per una volta, prescinde da un mediocre atto di volontà politicamente molesto ma discende da una compassionevole e indiscutibile esortazione dall’Alto, alias chiamata divina. Sta di fatto che, mentre la Bortone mi trafigge, stavolta con le frecce e io adesso sono San Sebastiano con la patta visibilmente sbottonata (l’indecenza in questo caso dovuta all’incontinenza), urlo prima di cadere al suolo la fatidica frase: “La carne è debole!”.
Il sogno era così verosimile che al risveglio ho cancellato il numero della Bortone che invece, quando non è un incubo e non guarda le telecamere, è una simpaticona, di quelle che con i capitan Memo si sollazza all’ora dell’apericena parlando del più e soprattutto del meno. I sogni, se li prendi per il verso giusto, sono cronache vere, soprattutto quando sono cronici.
Piovono dal mondo reale. Che non è quello dei fumetti quotidiani. Come se ne esce dunque, senza incappare nell’intemerata ma meritando la serenata della Bortone? Liberalizzare la palpatina ma solo dagli ottanta in su, autobus di linea inclusi? Sarebbe bello, ma troppo audace. Di questi tempi poi, dove la morale è uno scudiscio modaiolo e assai flessibile per cui si lincia la furtiva mano di un anziano signore (“Non ci resta che tangere”), manco fosse Jeffrey Dahmer all’apice del suo mattatoio.
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Detto, tra tutte le parentesi del mondo, che c’è più lirismo, più sottrazione d’amore e meno pornografia nel capitan Memo che allunga la mano morta nei territori della carne viva che, per dirne una, cioè tante, nelle tante ninfette che ammiccano sculettanti e libere di farlo nei video ipnotici di Tik Tok, evocando e lisciando i capitan Memo sparsi nel pianeta.
Detto questo, aspetto il prossimo sogno per chiamare alle armi un nuovo esercito della salvezza. Giovani donne e giovani uomini, ispirati al compassionevole detto di Annabel Chang, la celebre pornostar (“Mi piace essere trattata come un pezzo di carne”) si concedano con sentimento (ma anche senza) a bordo di autobus autorizzati e molto affollati alle palpatine di anziani signori e anziane signore che di solito non hanno più da palpeggiare che il proprio teschio. Piccoli, innocenti svaghi, tra un sinistro pensiero e l’altro. Un gigantesco atto di amore e di solidarietà. Di questo si parla. Facciamoci avanti, generosi, noi ventenni. Se la vecchiaia è un handicap. E, a quanto pare, lo è.
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