“SOLO IO HO SEGNATO 4 GOL A WEMBLEY" – LE BOMBERATE DI CAROLINA MORACE, DODICI VOLTE CAPOCANNONIERE IN A E 105 RETI IN MAGLIA AZZURRA – “EUGENIO FASCETTI, ALLENATORE DELLA LAZIO DICHIARO’ CHE IL PALLONE NON ERA ROBA DA DONNE, MA QUANDO MI VIDE IN PARTITA MI DISSE: "SEI UNA CALCIATRICE VERA" – FUI LA PRIMA DONNA AD ALLENARE UNA SQUADRA MASCHILE. LASCIAI VITERBO PER NON PIEGARMI ALLE INGERENZE DI GAUCCI: MOLTI COLLEGHI HANNO ABBASSATO LA TESTA"

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Antonio Barillà per “la Stampa” - Estratti

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Centocinque gol in 153 presenze azzurre, 12 volte capocannoniere in Serie A, 12 scudetti in 8 città, una carriera che gronda reti («Non le ho contate, ma sono più di 500») e primati: Carolina Morace è stata bomber che più bomber non si può, icona del calcio non soltanto femminile, oggi è allenatrice di successo, avvocata e opinionista tv.

 

 

(…)

 

La prima squadra?

«Il Ca' Bianca. Un giorno venne ad allenarsi sul nostro campo e papà, che conosceva la mia passione, mi suggerì di chiedere un provino. Avevo undici, ce ne volevano dodici per essere tesserate, ma falsificarono il cartellino e mi fecero debuttare in Serie C».

 

Cominciò la scalata...

«Passo successivo lo Spinea in B. Poi il Belluno con cui, quattordicenne, conquistai la Serie A e debuttai in Nazionale. Era il 1978: il ct Sergio Guenza mi fece entrare contro la Jugoslavia al posto di Betty Vignotto, una leggenda».

L'anno dopo si trasferì al Verona, prima tappa di un lungo Giro d'Italia in Serie A.

«Trani, Roma, Reggio Emilia, Milano, Sassari, Agliana, Verona, Modena... Ovunque sono stata bene e ovunque ho vinto: 12 scudetti e 12 titoli da capocannoniere».

 

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Differenze tra il calcio femminile di quegli anni e quello odierno?

«La tattica era meno evoluta, non avevamo modo di allenarci ogni giorno, però la qualità era più elevata: le migliori straniere giocavano in Italia e il livello tecnico azzurro era elevato, difatti due volte siamo arrivate seconde all'Europeo. Mi fa strano vedere nella Hall of Fame calciatrici in attività e non, solo per fare due esempi, campionesse come Silvia Fiorini o Antonella Carta».

Lei nella Hall of fame c'è.

«Prima donna, una grande emozione. Anche perché il premio mi fu dato da Rivera».

 

Uno dei tanti record. A quale è particolarmente legata?

«Ai 4 gol segnati a Wembley in una partita: nessun altro, uomo o donna, ci è riuscito. Era il 1990, amichevole con l'Inghilterra, Guenza quando andammo a visionare lo stadio, appena arrivate, disse: "Chi fa un gol qui è veramente un grande campione". In partita ripensavo alle sue parole e, man mano, mi ripetevo incredula: "Ne ho fatti due. Tre. Quattro...".Ma ho compreso la vera portata dell'impresa soltanto dopo il fischio finale, quando la capitana inglese si è presentata nello spogliatoio con il pallone firmato».

 

Occupa il quarto posto nella classifica mondiale IFFHS delle calciatrici del XX secolo.

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«Seconda tra le europee. E davanti solo rappresentanti di Nazionali vincenti: le americane Hamm e Akers e la tedesca Mohr».

 

Una soddisfazione che non si trova nel palmares?

«Le parole di Eugenio Fascetti, allenatore della Lazio quando giocavo lì. Aveva dichiarato che il pallone non era roba da donne, ma quando mi vide in partita disse: "Sei una calciatrice vera"».

 

È partito dall'Olanda il progetto delle squadre miste: lei avrebbe potuto stare in una maschile?

«No, e lo dico con cognizione avendo partecipato a partite benefiche con tanti ex campioni, da Chinaglia a Giordano a Totti: troppa differenza fisica.

Se sai giocare, puoi stare nel calcio a 5, in quello a 11 solo da bambine: a 14-15 anni capisci che se dribbli un uomo ti riprende, così tendi a evitare».

 

Smise a 34 anni.

«Stavo ancora benissimo, difatti vinsi lo scudetto e mi laureai capocannoniere, tuttavia sentivo di non essere più coordinata come prima, percepivo che l'input del cervello non si traduceva immediatamente nel movimento voluto. Ho sempre trovato squallidi i campioni che non sanno fermarsi, quelli che si trascinano o tornano dopo l'addio. Mi ha aiutato avere altri interessi e nuove prospettive: essendo laureata in giurisprudenza, sono entrata in uno studio legale e ho avuto più tempo per dedicarmi alla storia, passione ereditata da papà».

 

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Continuando però a respirare il profumo dell'erba: s'è solo spostata in panchina.

«Allenavo già, in realtà. L'ex arbitro Sbardella, mentre ancora giocavo, mi aveva proposto di guidare la Rappresentativa regionale del Lazio. Per me è stato un passaggio naturale: in campo parlavo sempre e guidavo le compagne».

 

 

È diventata la prima donna a guidare una squadra maschile tra i prof: la Viterbese.

«Esperienza bella ma brevissima. Andai via io per non piegarmi alle ingerenze del presidente Luciano Gaucci. Non ho abbassato la testa: qualche collega maschio l'ha fatto».

 

Andò via anche dalla Nazionale femminile...

«Dopo cinque anni di lavoro, con progressi evidenti, chiesi la partecipazione a tornei internazionali: volevo che la squadra crescesse ancora confrontandosi con nazionali più forti. Sapete cosa mi rispose un dirigente che ancora oggi, dopo vent'anni, è in Federazione? "Se chiedo un favore, non è certo per l'Italia femminile". Che senso aveva rimanere? Il movimento ha avuto un boom quando le tv hanno capito che interessava alla gente: i vertici non lo avevano colto».

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Porte sbattute, schiena dritta, carattere forte: ecco spiegato il soprannome....

«Le compagne mi chiamavano Tigre per lo sguardo che avevo quando giocavo».

 

Allenatore o allenatrice?

«Allenatrice. E ancora meglio coach. Di sicuro non Mister, che per altro usiamo solo in Italia».

 

(...)

Un futuro da manager?

«Perché no? Credo di avere la preparazione giusta. Finora tante mie idee sono rimaste inascoltate. C'entra anche il maschilismo, ma le cose stanno lentamente cambiando: sempre più donne occupano ruoli importanti nel calcio».

Dicono che Carolina Morace, donna "fuori dagli schemi" come ricorda l'autobiografia, non tema nulla.

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«Bugia: di ragni e cavallette ho paura».

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