Estratti da la Repubblica
Nicolas Vaporidis, classe 1981, ci racconta la storia del suo Piano B nella sua città, Roma, al belvedere del Gianicolo, dove è cresciuto. Una storia che parte dal successo di Notte prima degli esami (2006), che, dice, lo ha letteralmente travolto. «Nessuno ti insegna a gestire quella roba là. Avevo 24 anni.
La sera prima che uscisse il film ero un perfetto sconosciuto, il giorno dopo mi fermavano per strada. Si è aperto un mondo, mille possibilità. Da quel momento ho fatto 20 anni di cinema e 46 film. Un bel giro sulla giostra, insomma. Ma poi ho detto basta, perché quella non era la vita vera. Mi sono trasferito a Londra tre anni fa e ho ricominciato».
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In che modo?
«È stato difficile gestire quella popolarità. Per me era una cosa assurda. La mia è una famiglia normale, mia madre aveva un negozio di abbigliamento. E poi ero timido, in realtà ho fatto l'attore proprio per esorcizzare quella timidezza. Immaginate quando sono stato travolto dal successo di Notte prima degli esami.
Porte aperte ovunque. Tutti che ti vogliono. Donne, soldi. Ho perso il senso della realtà. Era una vita artefatta. Con rapporti artefatti. Molti ti stanno intorno solo per opportunismo. E poi parte una corsa a chi ha di più, a chi fa più cose. Ho fatto anche delle cazzate».
Per esempio?
«Non ho saputo gestire al meglio alcune relazioni. Anche perché non riuscivo ad avere dei rapporti solo per convenienza. Come magari compiacere questo o quel regista.
Comunque sono andato avanti. Fino a quando ho deciso di fermarmi. E di ripartire».
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«Il Covid è stato un acceleratore di cui una cosa che, forse, era già scritta. Già prima della pandemia il mio lavoro era diventato solo un lavoro. Forse ho fatto troppo. Insomma, non ero più felice. Era rimasta solo la parte negativa del mestiere. Le attese lunghissime tra un film e un altro, i tempi morti, la fatica.
Non c'era più quella gioia che avevo provato all'inizio. Così, dopo aver passato tre mesi chiuso nel mio attichetto a Monteverde, ho capito che dovevo mollare. La pandemia ci ha messo al muro. E ci ha detto: o cambi o muori. Me ne sono andato».
A Londra, dove ha aperto un ristorante.
«Sì, Taverna Trastevere. L'idea l'ha avuta Alessandro Grappelli, il mio migliore amico. All'inizio è stata dura ma ci abbiamo creduto e siamo cresciuti. Lavoriamo tanto. Adesso i ristoranti sono diventati tre: uno a Milano e due a Londra, dove vivo. E tra due settimane mi sposo».
Auguri, qualche dettaglio?
«La mia futura moglie si chiama Ali. Stiamo insieme da un po'. Lei è metà italiana e metà inglese. Vorrei dei figli, sono pronto. Il resto preferisco tenerlo per me».
Mentre il primo matrimonio con Giorgia Surina finì su tutti i giornali. Ma torniamo al ristorante. Ha dovuto imparare un mestiere nuovo?
«Sì, anche se avevo fatto un po' di esperienza già da ragazzino. Ma soprattutto ci ho messo del mio. Perché ho voluto portare il mio vissuto nella nuova vita. Quello che mi interessa non è dare da mangiare alle persone. Ma far vivere un'esperienza. Fare spettacolo. Ogni sera andiamo in scena. Gli attori sono i ragazzi dello staff, il pubblico sono i clienti. Mi piace far star bene gli altri».
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Bisogna imparare a mollare?
«Sì, imparare a capire quando è il tempo di dire basta. E mettere in atto qualcosa che invece ti fa sentire di nuovo acceso. E poi, come mi diceva Giorgio Faletti (interprete del professor Martinelli, la "Carogna", di Notte prima degli esami, ndr): l'importante non è la destinazione del viaggio, ma vivere quel viaggio. Prima, per esempio, non mi godevo il film del momento perché già pensavo al film successivo. Adesso vivo il presente. E ho imparato a mettermi in discussione».
Cosa risponde a chi le dice che cambiare vita avendo le sue possibilità è facile?
«Rispondo che è stato comunque difficile. All'inizio facevo il cameriere, prendevo le ordinazioni e portavo i piatti sporchi».
È sicuro che il suo Piano A è tramontato? Con il cinema ha proprio chiuso?
«Non chiudo mai nessuna porta. Se mi innamorassi di una sceneggiatura, non escludo che farei quel film».
Oggi è felice?
«Lo sono. E lo sono molto più di quando ho fatto Notte prima degli esami. Sono grato».
E l'accento resiste.
«Il romanesco? Certo (ride). Anzi, oggi si sente più di prima. È il mio modo per rimanere legato a questa città, alla mia Roma».
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