Francesco Borgonovo per “la Verità”
Una delle - pochissime - buone notizie giunte agli appassionati di sport (e di basket in particolare) in questi mesi di reclusione forzata è stata quella riguardante l' uscita su Netflix di The Last Dance, un documentario a puntate realizzato dall' emittente Espn e dedicato ai Chicago Bulls di Michael Jordan, forse la squadra di pallacanestro più forte di tutti i tempi. In realtà anche chi non è per nulla interessato alla Nba può trovare molte ragioni per apprezzare la serie:
le sfide sul campo sono sostanzialmente una scusa per mettere in scena il grande spettacolo dello sport professionistico americano. La pressione sui singoli atleti, le questioni economiche, i giochi di potere, l' influenza degli sponsor e dei media. I passaggi su Dennis Rodman, disperso per giorni interi a vagare per festini, e ripescato in una camera d' albergo con Carmen Electra che tenta di nascondersi fra le lenzuola, valgono da soli il viaggio.
Era inevitabile, però, che qualcuno non fosse soddisfatto del risultato finale. Nei giorni scorsi il Guardian e il Wall Street Journal hanno accusato The Last Dance di essere poco ficcante sul piano giornalistico. Troppe questioni scottanti passerebbero in secondo piano. Ad esempio la presunta dipendenza dal gioco di Jordan, oppure la polemica sollevata dall' ex compagno Chris Hodges. Costui si è parecchio offeso perché Michael ha offerto un ritratto impietoso della squadra in cui piombò alla fine degli anni Ottanta: nell' ambiente la definivano «il circo viaggiante della coca».
Sì, è vero: The Last Dance concede molto spazio, fin troppo, alla «versione di Mike». Ma proprio qui sta la sua bellezza, talvolta spaventosa.
Questo documentario è una sorta di versione patinata, semplificata e sportiva del Soccombente di Thomas Bernhard.
Mostra che cosa accade quando uomini talentuosi si trovano fianco a fianco con il Glenn Gould del canestro: Michael Jordan, appunto. Qualcuno resta stritolato, qualcuno si arrabbia, altri semplicemente si sottomettono, tutti vengono in qualche modo cambiati, e non senza dolore.
Da questa mostra delle atrocità emergono alcune piccole lezioni di grande scorrettezza politica. La prima ha a che fare con la competizione e la democrazia.
Jordan appare per quello che era: un insopportabile prepotente. Lo vediamo vessare i compagni in continuazione, pungolarli, insultarli.
Il general manager Jerry Krause, che pure gli ha costruito intorno una squadra, viene trattato da Michael come il compagno grassoccio a cui rubare il pranzo. Il povero Steve Kerr si vede recapitare un pugno in faccia. Il bonaccione Scott Burrell non ha un attimo di pace. In pratica, vediamo un documentario sul bullismo. Piccolo problema: in certe situazioni, è così che si vince. Lo scontro non ammette democrazia, né quote né giustizia sociale. Jordan era il migliore e pretendeva che tutti fossero degni di stargli a fianco. La storia, e i 6 titoli vinti, gli hanno dato ragione.
La seconda lezione ha di nuovo a che fare con la questione dei diritti, argomento che nessun prodotto culturale americano può trascurare, da qualche anno a questa parte. The Last Dance racconta un episodio avvenuto nel 1990, già approfondito da Roland Lazenby nella splendida biografia Michael Jordan. La vita, edita in Italia da 66thand2nd. Nell' estate di quell' anno a Michael «fu chiesto, attraverso la madre, di sostenere la campagna elettorale di Harvey Gantt, un democratico afroamericano che stava cercando di scalzare l' ultraconservatore Jesse Helms dal suo seggio in Senato come rappresentante del North Carolina. La sfida», spiega Lazenby, «era combattuta e sollevava molte questioni dal punto di vista razziale, simboleggiate dal celebre spot a favore di Helms [...] che mostrava un uomo dalla pelle bianca che riceve una lettera di rifiuto da parte di un datore di lavoro per colpa delle quote razziali. Lo spot, scritto dallo stratega repubblicano Alex Castellanos, faceva leva sull' irritazione degli elettori bianchi. Quando lo staff di Gantt chiese a Jordan di partecipare alla campagna elettorale, lui rispose con una frase destinata a diventare famosa: "Anche i repubblicani comprano scarpe"».
Michael fu aspramente criticato per il mancato appoggio a Gantt, e anche nel documentario l' uscita sulle scarpe gli viene rinfacciata. Non fu nemmeno il primo scontro con la comunità nera. Sempre nel 1990 Jordan ebbe a che fare con la Operation Push di Jesse Jackson. Scrive Lazenby: «Il reverendo Tyrone Crider, uno dei giovani luogotenenti di Jackson, appena nominato direttore esecutivo della Push, aveva stigmatizzato lo scarso coinvolgimento della comunità afroamericana all' interno della Nike».
Jordan prese le difese dell' azienda, che comunque si impegnò ad assumere più neri. Michael non è mai stato un attivista in stile Muhammad Alì. Anche di recente ha sempre cercato di tenere basso il fuoco della polemica razziale, sostenendo sia associazioni afroamericane sia organizzazioni di agenti di polizia. Ha agito così per interesse, in parte. Ma anche per convinzione. Niente strepiti, niente impegno sbandierato.
Eppure, con le sue scarpe, le sue magliette e i suoi successi, Jordan ha fatto per l' emancipazione dei neri più di tantissimi altri, diventando un' icona trasversale e non necessariamente divisiva.
Ci è riuscito con fatica, disciplina, eroica dedizione.
Aveva soldi e talento, sì, ma pure una micidiale tenacia. Si è dedicato alla scultura di sé e della propria squadra, e ha trionfato. È diventato il migliore perché ha lasciato piagnistei e vittimismi ai perdenti. E come tutti i vincitori, si è preso il potere di raccontare la storia in una sola versione: la sua.
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