Simone Marchetti e Malcom Pagani per Vanity Fair
Un giorno al centro del quadrato, il giorno dopo alle corde: «Ho fatto le mie cazzate, ne ho assaporato il gusto e in un certo senso sono contento di non essermene dimenticata neanche una. Da ragazzo covavo un’insofferenza molto forte nei confronti del mondo adulto e, per essere accettato, combattevo i grandi con ogni mezzo. Sfidavo i luoghi comuni, eccedevo, lottavo a modo mio per conquistarmi il rispetto degli altri. Forse non era una guerra così intelligente, ma era esattamente quella di cui avevo bisogno per sentirmi vivo».
Sarà che più si invecchia, più affiorano ricordi lontanissimi, ma quelli di Gigi Buffon sembrano dipinti ieri. Gli strappi sentimentali: «Quando andai a vivere in collegio, al Maria Luigia di Parma, e vidi i miei genitori diventare figure sempre più piccole dal finestrino di un pullman». Il futuro da predestinato che già allora non gli bastava: «Ero adolescente e il mio allenatore dell’epoca mi disse: “Appena maggiorenne giocherai in Serie A”. “E fino a quel momento”, risposi, “come trascorro i prossimi anni?”».
Il primo bacio, a Valentina, tra i lettini dei Bagni Unione 1920 a Marina di Carrara: «Ringrazio tutte le persone che mi hanno fatto emozionare e regalato qualcosa, ma non mi ritengo un gran sentimentale». Mente, perché dopo 17 anni di Juventus, 9 scudetti, molte coppe e un Mondiale conquistato facendo piangere proprio i francesi, Buffon la scorsa estate ha chiuso il cerchio. Ha salutato il Piemonte, a maggio. È arrivato a Parigi poco dopo. L’approdo nel club più importante della nazione. Una casa con vista sulla Torre Eiffel a qualche centinaio di metri dal ponte di Passy dove Marlon Brando e Maria Schneider, correndo a perdifiato, inseguivano il sogno di una passione senza definizione.
Gigi non ha visto Ultimo tango a Parigi, ma ha deciso di vivere, ballare e far coincidere sogni e segni nella stessa città. Con la barba bianca sulla faccia da vitellone fuori contesto, ha deciso di colorare ancora di rosso le ginocchia in un altro campionato quando tutto, a partire dall’anagrafe, consigliava un altro finale di partita: «Venire qui significava recidere un cordone ombelicale, ma penso che togliersi dalla propria comfort zone e mettersi in gioco sia l’unico modo per misurare se stessi. Ne ho parlato con i miei figli. Ho detto: “Forse ci vedremo un po’ di meno”, e loro, tranquilli: “Vai papà, sei ancora fortissimo, goditi questa opportunità”».
Quando era bambino, a Pertegada, in Friuli: «Dove i miei zii gestivano un negozio di generi alimentari e io passavo la giornata tra gli scaffali imparando a fare i calcoli con il registratore di cassa» equazioni e sentimenti dovevano restituire il risultato unico del pragmatismo. Ora che il tempo lo ha trasformato da promessa in leggenda, Buffon ha deciso di fermarlo con l’amore. Mesi dopo, per strada, lo fermano e lo ringraziano: «Allez Gigì, allez». Lui spera di continuare almeno per un anno: «L’idea, se al Psg saranno d’accordo, è quella» e di spostare la frontiera ridisegnando il confine perché immaginare i limiti, dice, «imprigiona la libertà».
La libertà è stata importante?
«Se avessi soffocato le mie pulsioni avrei vissuto male. Ora che sono un uomo adulto, mi tengo ben stretta la sana follia dei miei vent’anni. Qualcuno la confonde con l’immaturità, io invece la chiamo proprio libertà. Una libertà nuova. Diventando grande tendi a fonderla con il senso di responsabilità e provi a evitare gli errori del passato».
Ne cancellerebbe qualcuno?
«Ci sono cose di cui non vado fiero e altre che mi hanno fatto vergognare, ma i miei errori me li tengo tutti perché mi hanno aiutato a crescere. Li ho compiuti perché a volte quando si è immaturi ci si comporta da stupidi, ma mai con l’intenzione di far male agli altri. Sbagliando, al limite, ho fatto male a me stesso».
E va bene così?
«È la vita. Non hai sempre qualcuno lì a proteggerti, a coprirti, a perdonarti. A me poi non ne hanno fatta passare mezza, ma se devo stilare un bilancio, non può che essere positivo».
Solo per i successi?
«Perché ho capito che se sei altruista e rinunci a qualcosa per premiare gli altri la vita non ti lascia mai a piedi. Cercate pure un mio collega che per far giocare i suoi compagni abbia rinunciato a una quarantina di partite in Nazionale. Non lo troverete».
E cos’altro ha capito?
«Che quando c’è burrasca la cosa migliore che puoi fare è stare fermo. Hanno provato a ferirmi e a farmi male tante volte».
E ci sono riusciti?
«Sicuramente sì, quando mettono in dubbio la tua onestà o rovistano violentemente nel tuo privato come i topi farebbero nella spazzatura, possono farti molto male. Se però hai coscienza di chi sei e nutri fiducia in te stesso, alla lunga ti rassereni e capisci che a giudicare un altro essere umano può essere solo chi sta più in alto di tutti noi».
Cosa ha significato essere un calciatore per più di metà della sua vita?
«Non ho avuto le esperienze canoniche di ogni adolescente, ma ne ho avute altre, belle e formative, che oggi non baratterei con nessun’altra. I sacrifici sono stati ripagati e non è detto che quello che non sei riuscito a fare a 16 anni tu non lo possa fare a 25».
Cosa ricorda dei suoi sedici anni?
«Una sensazione di onnipotenza e invincibilità. Mi sentivo indistruttibile, pensavo di poter eccedere, di fare quel che volevo. Una sensazione che mi ha accompagnato per quasi dieci anni. Una volta, agli inizi, eravamo in tournée in America e Nevio Scala, il tecnico del Parma, mi disse di scaldarmi a metà del secondo tempo per farmi giocare una mezz’ora: “Se mi scaldo anche, la partita finisce”. Si girò verso di me e mi guardò come nessun altro ha mai più fatto. Lo feci arrabbiare, era furibondo e aveva tutte le ragioni».
Però?
«Però ero fatto così. Avevo il fuoco dentro e per frenare gli impulsi, contare fino a 10 ed evitare tanti grattacapi c’è voluto tempo».
È vero che anni fa prese qualche manganellata della polizia?
«È una storia che risale a vent’anni fa. Dopo una partita diedi un passaggio a un tifoso del Parma. Al casello c’era un posto di blocco della polizia. Appena vide le luci blu, lui si dileguò. A confronto con loro rimasi solo io. Oggi, ovviamente, non commetterei più quelle leggerezze, ma riconosco ancora quel ragazzo capace di slanci di solidarietà nei confronti di un amico. Anche di un amico che sbaglia».
Uno sportivo figlio di sportivi.
«Ho fatto uno sport competitivo. E la competizione mette a nudo la vera bestialità dell’individuo. Ci sono i freni inibitori, ma a volte per tenere a bada stress e sollecitazioni nervose i buoni propositi non bastano».
È stato una bestia anche lei?
«Ho conosciuto il branco e del branco, se vuoi entrare a farne parte, da ragazzino, in qualche modo devi conoscere i codici. Capisci di essere diventato adulto quando dal branco hai la forza di uscire».
Lo spogliatoio di una squadra di calcio vive dinamiche profondamente maschili.
buffon mattarella riccardo cucchi
«Quando ero ragazzino, al mare, i grandi mi legavano le mani dietro le spalle per farmi rotolare sulla sabbia. Era una dinamica profondamente maschile anche quella, ma non per questo mi sono mai sentito bullizzato come invece magari mi accadeva all’asilo quando come forma di protesta, sentendomi estraneo al contesto, alle lezioni di disegno invece di far correre la penna sulla carta, la carta preferivo mangiarla. Non ho mai vissuto la mia crescita in chiave vittimistica, né ho mai avuto problemi a mostrare la mia mascolinità in una dialettica che fosse anche fisica. Nella crescita ci sono varie fasi. Anche complicate. Non mi volevo sentire più bello o più forte di quel che sono, ma sapevo come creare una dinamica di gruppo. In uno spogliatoio, ovviamente, è una cosa importante».
Per anni ha seguito la sua squadra, la Carrarese, in trasferta.
«Ferrara, Bologna, Empoli. Chi se lo scorda? Sono i ricordi più belli, quelli che mi fanno ridere e mi danno spensieratezza. Commando Ultrà Indian Tips, il nome del gruppo di tifosi che seguivano la Carrarese, ancora ce l’ho stampato sui miei guanti».
Chi incontrava in curva?
«Gente di cui si parla tanto senza saperne nulla. Ragazzi normali. Sognatori. Idealisti. Alcune persone interessanti e qualche deficiente».
Immagini di quel passato?
«La nuvola di fumo che avvolge i tifosi della Casertana, una nebbia provocata non dai fumogeni, ma da 200 canne fumate tutte insieme, è come se la vedessi ora».
Lei ha mai fumato?
«Forse da ragazzo un tiro di canna l’ho anche fatto, ma i miei erano sportivi. E non drogarsi, non doparsi, non cercare altro fuori da te sono principi che mi hanno passato presto. A 17 anni, quando in discoteca mi mettono una pasticca sulle labbra, io so come e perché dire di no. Io non giudico, ma se sei uno sportivo, il concetto dell’una volta e basta non esiste. O sei da una parte, o dall’altra».
Paulo Dybala sostiene che un calciatore sia sempre solo.
«Calcisticamente parlando, è verissimo. I compagni possono darti una mano, ma poi in trincea resti tu e soltanto tu».
Ricordi della depressione che la colpì anni fa?
«La capacità di superarla parlandone con gli altri. Una volta lessi che Marilyn Monroe aveva raccontato la sua spiegando di averla attraversata osservando la vita dal finestrino di una limousine. Non mi ha mai persuaso. Se non avessi condiviso quell’esperienza, quella nebbia e quella confusione con altre persone, forse non ne sarei uscito. Ebbi la lucidità di capire che quel momento rappresentava uno spartiacque».
Quale spartiacque?
«Lo spartiacque tra arrendersi e affrontare le debolezze che abbiamo tutti. Non ho mai avuto paura di mostrarle né di piangere, una cosa che mi capita e di cui non mi vergogno affatto. Prima parlavo di libertà. Ecco, saper affrontare una situazione delicata ha un prezzo alto, ma confina con la libertà. Non siamo pupazzi. Coviamo malessere anche noi. Per diradarlo servono corpo e anima, testa e budella».
Come si trovò in quella situazione?
«A un certo punto, tra la fine del 2003 e il 2004, per qualche mese, ogni cosa perse di senso. Mi pareva che agli altri non interessassi io, ma solo il campione che incarnavo. Che tutti chiedessero di Buffon e nessuno di Gigi. Fu un momento complicatissimo. Avevo 25 anni, cavalcavo l’onda del successo e della notorietà. Un giorno, a pochi minuti da una partita di campionato mi avvicinai a Ivano Bordon, l’allenatore dei portieri, e gli dissi: “Ivano, fai scaldare Chimenti, di giocare io non me la sento”. Avevo avuto un attacco di panico. Non ero in grado di sostenere la gara».
Cosa le disse Bordon?
«Di non prendere decisioni avventate. Chimenti iniziò a prepararsi e in quei tre minuti provai un fastidio enorme. L’idea di non riuscire a dominare le mie emozioni mi fece incazzare e quell’incazzatura mi fece bene. Reagii e sentii una scossa interiore. “Ricominciamo Ivano, la partita la voglio giocare”. Mi appellai all’orgoglio. Ci misi veemenza, palle, cuore».
L’Italia non ha disputato i Mondiali. Sono mancati palle e cuore? È stata colpa di Ventura, il Ct?
«Quando un progetto fallisce, non può mai esserci un solo colpevole. Tutti, a partire da noi calciatori, hanno avuto le loro colpe».
C’è chi dice che la squadra non fosse con lui?
«Una balla colossale. Ventura ha avuto la nostra massima disponibilità e lo abbiamo difeso in ogni occasione. A un certo punto, è vero, si è sentito solo. Ma forse un sostegno diverso avrebbe dovuto averlo da chi di dovere. Evidentemente molte cose non hanno funzionato come avrebbero dovuto. Come insegnante di calcio, a me Ventura è piaciuto tantissimo».
La nostalgia per lei è un valore?
«Per me è un valore importantissimo. Mi riporta al mio primo Super Tele, alla mia infanzia, alla banda di via Cadorna. Ai miei amici di ieri che sono ancora i miei fratelli di oggi: Buk, Claudio, Marco. Gente normale, genuina, con cui si poteva essere ironici e ridere con poco. Da qualche settimana, come premio, la sera mi riguardo le vecchie puntate di Indietro tutta! Quando vedevo quel genio di Arbore in tv, era come se giocasse l’Italia. I pannolini, il Cacao meravigliao, ricordi stupendi che mi spiace di non poter tramandare ai miei figli».
Ha nostalgia anche della normalità, a volte?
«Di quella mai. La normalità me la vado a cercare. È il mio posto. La mia aspirazione. È vero che se all’inizio fossi stato più umile non avrei fatto la carriera che ho fatto, ma è anche vero che se dopo lo fossi stato di meno avrei concluso la mia parabola molto prima. Essere arrogante, sportivamente parlando, almeno all’inizio mi ha aiutato».
Avrebbe potuto giocare in un club italiano che non fosse la Juventus?
«Con una scelta romantica, forse sì. Se non alla Carrarese, dove non era possibile, ma avrei comunque fatto una scelta simbolica capace di rendere felici tante persone, magari al Genoa o nella Lazio. Non c’è stata una volta in oltre vent’anni di Serie A in cui a Roma i suoi tifosi non mi abbiano accolto come un amico. Con rispetto e affetto. Li ringrazio ancora oggi e li porto nel cuore».
C’è chi dirà che li loda perché lei non è mai stato di sinistra.
«Oggi destra e sinistra sono categorie che fatico a comprendere, fuori e dentro di me. Non ho un’idea precisa di cosa rappresentino e forse in questo momento non ce l’ha nessuno. Mi parlate di un mondo che non esiste più, di ideali che non esistono più».
Cosa pensa del nuovo governo italiano?
«Lo osservo. Da fuori, da lontano, le cose si osservano meglio. Mi pare stiano sperimentando qualcosa di alternativo al già visto. Voglio vedere dove andranno a parare».
È più curioso o più preoccupato?
«Sono più curioso. È difficile che sia preoccupato e non parlo solo della politica ovviamente. Per indole tendo a rispettare tutti e a guardare con fiducia il presente e il futuro».
Negli stadi italiani si ascoltano urla e ululati di chiaro stampo razzista, fuori dall’arena, come accaduto a Milano, si continua a morire.
«Se affonda un barcone a Lampedusa e muoiono 300 persone ci commuoviamo e pensiamo anche ad adottare i bambini rimasti orfani, ma se non affonda ci lamentiamo dell’ingresso di 300 immigrati e ci chiediamo cosa vengano a fare. È difficile provare a contestualizzare quanto successo a Milano. L’odio è un vento osceno, da qualunque parte spiri. Non solo in uno stadio. Perché ho il forte sospetto che il calcio, in tutto questo, reciti soltanto da pretesto».
Lei cova mai rancori? Magari nei confronti della Juventus?
«Questo sarebbe assurdo. Sono stati 17 anni bellissimi. Sono grato alla Juve e penso che a Torino siano contenti di quel che sto facendo qui. Sentivo di poter ancora dire la mia. Ho dei sogni che voglio realizzare e credo ci sia ancora tempo».
Dove si vede tra dieci anni?
«Spero di essere in piedi. Se ripenso al ragazzino che ero e ai sogni che avevo, non commuovermi è impossibile».
Come vede il suo futuro?
«William Vecchi, un allenatore, sosteneva che un portiere non possa essere mai davvero ottimista perché quando si mostra ottimista è già troppo tardi. Posso solo nutrire delle speranze».
Come si arriva a 41 anni nelle sue condizioni?
«Il talento non basta, l’insoddisfazione aiuta, mettersi nei panni degli altri consola, vedere altri mondi amplia le prospettive».
Gigi Buffon, autoscatto.
«Sono uno strano figuro di 40 anni che va in campo, pensa di averne venti e ha più sogni e ambizioni di quanti ne avesse da ragazzo».
Ce li confessa?
«Preferisco di no, altrimenti al mistero, poi, cosa resta?».
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