Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” - Estratti
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E se il quarto posto non meritasse un’invettiva, ma un’elegia?
La giornata olimpica inizia con la nuova classifica delle medaglie di legno, resa popolare in Italia dai social di Enrico Mentana, che rilancia un account francese, la Fédé de la Lose: un gruppo di buontemponi che hanno fondato la Federazione degli Sconfitti.
L’Italia capeggia nettamente la graduatoria con 19 quarti posti, davanti a Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti e Spagna: tre nazioni latine su cinque; la Cina è solo ottava. Non si fa in tempo ad arrivare al ponte Alessandro III, dove alle 9 e mezza del mattino arriva la maratona del nuoto, che già le medaglie di legno sono diventate venti.
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Mimmo Acerenza ha perso il bronzo per sei decimi al termine di una gara durata quasi due ore, dopo aver nuotato per dieci chilometri. Esce dalla Senna tutto gocciolante d’acqua (e chissà poi se è solo acqua), e assicura che si è divertito un sacco. Cosa vuoi dire a uno così? Che all’Olimpiade si viene per vincere e non per divertirsi? Ma no, quando parla di divertimento Acerenza non si riferisce al luna park, intende quello sforzo ai limiti delle proprie capacità, questa sfida condotta sino all’estremo contro gli altri, contro la corrente del fiume, contro se stessi.
Un cronista inglese chiede ragione del nostro scoramento. Gli spieghiamo dell’amaro record italiano. Lui infierisce: «Jack of all trades, master in none». È un vecchio proverbio anglosassone: uno che si arrabatta in tutti i campi non è maestro in nessuno. Eppure il primato dei quarti posti è segno di una crescita complessiva del nostro movimento. Magari ci mancano punte di eccellenza in sport che un tempo ci vedevano protagonisti: non abbiamo più Cammarelle e Russo nel pugilato, i fratelli Abbagnale nel canottaggio, Cagnotto padre e figlia nei tuffi (per tacere del divino Dibiasi). Ma negli ultimi anni siamo cresciuti molto nelle discipline olimpiche per eccellenza: la ginnastica, il nuoto, l’atletica.
domenico acerenza europei roma
I cinque ori di Tokyo nell’atletica erano ovviamente irripetibili; in troppi hanno puntato più sugli Europei di Roma che sull’Olimpiade, preferendo un oro casalingo a una finale ai Giochi resa proibitiva da americani e africani; ma abbiamo molti giovani interessanti, a cominciare dai due lunghisti, Mattia Furlani e Larissa Iapichino. Nella marcia il campione olimpico uscente Massimo Stano è arrivato ovviamente quarto, ma dopo aver recuperato in pochi giorni da un grave infortunio, un piede ferito dai vetri di una bottiglia rotta. Nel nuoto ha fatto notizia il quarto posto di Benedetta Pilato, rimproverata dalla «bad girl» Elisa Di Francisca per l’eccessivo entusiasmo dopo una sconfitta.
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Ancora più doloroso e ancora più prezioso il quarto posto negli 800 e nei 1500 di Simona Quadarella, veterana che ha avuto l’unico torno di gettarsi in piscina al tempo delle Pellegrini e delle Ledecky.
(Nel frattempo Riccardo Pianosi è quarto nel kite: siamo a ventuno).
È possibile che a qualche azzurro sia mancata un po’ di cattiveria agonistica. Quando se n’è parlato, a proposito della scherma e in particolare del quarto posto della sua fidanzata Alice Volpi nel fioretto, Daniele Garozzo ha protestato: si può vincere senza essere cattivi. Certo che si può.
A volte però un pizzico non di malanimo o di scorrettezza ma di determinazione in più — senza arrivare alla ferocia del lupo serbo Djokovic — potrebbe aiutare. Un tempo i nostri schermidori erano più ribaldi, più guasconi, meno bravi ragazzi. L’importante però è continuare a vincere; e in fondo Filippo Macchi nel fioretto aveva quasi vinto, che per certi versi è più doloroso che perdere. Qui entrano in scena gli arbitri: se ci manca qualche medaglia, è pure a causa di errori apparsi evidenti, dalla scherma alla boxe alla pallanuoto; anche se l’happening del Settebello con le spalle alla giuria è parso un po’ eccessivo.
(Intanto Chiara Pellecani è quarta nei tuffi: ventidue).
Se il collega inglese fosse ancora qui, gli ricorderemmo che il suo proverbio non era tutto lì. La versione integrale recita: «Jack of all trades, master of none, better than master in one»: meglio cavarsela un po’ in tutto, che non padroneggiare una cosa sola.
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