Sportweek intervista Martin Bengtsson, ex centrocampista svedese oggi 35enne tesserato dall’Inter nella Primavera quando aveva 16 anni. Un sogno fin da bambino, quello di giocare in Italia, ma che per lui, ben presto, si trasformò in un incubo.
Non parlava italiano, lontano dalla famiglia iniziò a soffrire la solitudine e la concorrenza dell’ambiente, poi un infortunio che lo mandò in crisi. Dopo nove mesi, un tentativo di suicidio e la depressione. Oggi racconta la sua esperienza in un libro, “Nell’ombra di San Siro”, da cui presto verrà tratto il film “Tigers”, firmato dal regista Ronnie Sandahl.
Racconta che il suo sogno sarebbe stato giocare nel Milan, ma che quando l’Inter lo chiamò non esitò ad accettare. Ma qualcosa andò storto.
«Avevo iniziato bene, segnato subito: mi divertivo. Dopo un po’ sono iniziati i problemi. I dirigenti dell’Inter mi avevano promesso tante cose che poi non hanno mantenuto: un appartamento, invece dovevo vivere insieme agli altri ragazzi della Primavera. E soprattutto le lezioni di italiano, la possibilità di andare a scuola. La lingua è tutto, mi sentivo tagliato fuori. Stavo sempre peggio. Poi ho avuto un piccolo infortunio e per due settimane non sono potuto scendere in campo. Lì ho avuto una crisi esistenziale: la mia identità era basata sul calcio e se non giocavo, chi ero?».
«Alcuni ragazzi della mia squadra avevano fumato marijuana, così hanno iniziato a controllarci ancora di più: l’ambiente era pesante, duro. Sicuramente c’entrava anche la mia personalità: in quegli ambienti si aspettano ragazzi tutti uguali, ma non può essere così. Io ero sempre più depresso e così ho tentato il suicidio.
Quando mi sono svegliato in ospedale a Milano è stato bruttissimo. Sono tornato in Svezia e mi sono ripreso con l’aiuto di una psicologa, Barbro, e anche di altre persone.
L’Inter mi ha cercato ma non ho più voluto tornare. Dopo due anni ho provato a giocare di nuovo nell’Örebro e stavo andando pure bene. Una mattina, dopo una bella partita, leggendo sul giornale ”Martin Bengtsson sta tornando forte come prima”, ho pensato: no, no, non voglio affatto tornare. E così ho deciso di smettere con il calcio. Già avevo iniziato a scrivere, a fare altre cose e sono andato a vivere a Berlino per un periodo, dove ho conosciuto Ronnie, il regista: siamo diventati amici ed è allora che mi a detto che voleva fare questo film».
Il libro, per lui, è stato come una terapia.
«A quel tempo si parlava tanto di me e tutti tendevano a darmi la colpa. Dicevano che ero debole, che ero un tipo strano, stupido, che mi avevano molestato nella doccia, ho sentito di tutto. Il calcio è un mondo molto maschilista, i ruoli sono ben determinati. Si raccontavano un sacco di bugie e scrivendo il libro ho preso in mano io la situazione, raccontando la mia storia».
Spera che il libro possa aiutare dei ragazzi come lui.
«Io spero che i giovani si prendano più cura di loro stessi e capiscano che se non ce la fanno non si devono buttare via, e che i club imparino a pensare a come far stare bene i giocatori: hanno un sacco di esperti per il fisico, ma chi cura l’anima?».
Parla anche di Moratti.
«Massimo Moratti mi ha invitato a pranzo. Abbiamo parlato di tutto, ha voluto capire cosa non era andato, qual era stato il ruolo dell’Inter in tutto quello che mi era successo e anche cosa si può fare per migliorare il mondo del calcio. Abbiamo parlato di tutto, mi sembra un’ottima persona, gentile e umile. Per me è stato un incontro importantissimo, mi ha fatto stare bene e soprattutto mi ha dato finalmente la possibilità di chiudere questa storia una volta per tutte».
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