Paolo Tomaselli per il “Corriere della Sera” - Estratti
Trentatré anni di Inter, tredici dei quali da direttore del settore giovanile, ruolo che dall’anno scorso ricopre all’Atalanta; responsabile della sezione di sviluppo del calcio giovanile del settore tecnico della Federcalcio: Roberto Samaden, quando si parla di giovani, come in questo momento di crisi, qual è l’aspetto chiave?
«Ho sentito parlare di aspetti tecnici e di valorizzazione. Ma prima delle questioni specifiche legate al campo, direi che il fattore più limitante per la crescita dei ragazzi e delle ragazze è l’ambiente in cui crescono».
Cosa deve cambiare?
«Non è possibile che in nome del risultato, tutto sia giustificato. Cambiare una cultura non è per nulla facile. Ma per costruire un ambiente formativo è necessario investire sulla base, per esempio investendo sulla promozione del calcio a 5 nel sistema scolastico».
Le rivoluzioni culturali hanno bisogno di gesti concreti: da dove si può partire?
«Sarebbe importante avere un progetto unico, mentre in Italia ci sono sette componenti che si occupano di calcio giovanile e diventa un limite. Un esempio? La Primavera 1 è diventata Under 20, gli altri livelli (Primavera 2, 3 e 4) non si sono uniformati. Ci sarebbe bisogno di una sorta di commissariamento per individuare una strada comune».
Per alcuni alzare l’età della Primavera è sbagliato. Che ne pensa?
«Tenere i ragazzi nel mondo giovanile non è propedeutico alla crescita, ma d’altra parte le seconde squadre non hanno ancora attecchito».
Ma cresciamo giovani competitivi?
«Per raggiungere risultati immediati in ambito giovanile, sicuramente sì, ma con grossi limiti in termini di crescita e inserimento nel calcio dei grandi. E i nostri si allenano molto meno dei pari età delle maggiori nazioni».
La formazione degli allenatori è valida?
«I corsi per allenatori e per responsabili dei settori giovanili, questi ultimi introdotti grazie a Demetrio Albertini presidente del settore tecnico e scolastico, ce li invidiano all’estero. Ma l’impatto dell’ambiente da noi è devastante per la crescita di tutti, non solo dei ragazzi».
Ma all’estero l’ambiente è diverso o sono diverse anche le idee?
«Ovunque io sia andato ho trovato ambienti più formativi, ma si sono sviluppati progetti come quello del ranking per i settori giovanili che incentivano all’investimento sui vivai. Da noi è fondamentale che la Lega Pro torni avere il ruolo di un tempo: il presidente Marani lo ha capito».
Vediamo le Under azzurre che vincono, poi quasi nessuno sfonda. Perché?
«Non è solo una questione legata alla mancata valorizzazione, è vero. Il panorama europeo è superiore al nostro. Il grandissimo lavoro del Club Italia e di Maurizio Viscidi non è dovuto al fatto che abbiamo i migliori giocatori: il nostro prodotto si è impoverito tanto».
È pessimista?
«No, sono ottimista se si decide finalmente di investire nella base come si è fatto di recente con il programma delle aree di sviluppo territoriale. Senza preoccuparsi solo del vertice della piramide».
Lo sviluppo territoriale è la forza della Svizzera che ci ha battuto?
«Hanno fatto un bellissimo lavoro, adattando il progetto francese e investendo molto sui centri federali».
I nostri ragazzi vanno all’estero per giocare o per i soldi?
«È innegabile il fattore economico, ma le opportunità che danno molti club all’estero sono concrete. C’è però un dato dell’Eca su cui riflettere: negli ultimi 10 anni l’80% dei calciatori 16enni che ha lasciato il paese d’origine, è tornato indietro».
Ora tutti i riflettori sono su Camarda nel Milan U23. È giusto che sia così?
«Lui è la classica eccezione che conferma la regola, ma bisogna aver grande attenzione nel valutare il momento opportuno per il salto: la maggior parte dei professionisti ha fatto un percorso per gradi. E ogni ragazzo ha tempi di maturazione diversi».
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