Angelo Di Marino per “La Stampa” - ESTRATTI
Sul tavolo c'è la medaglia d'oro. I giornali già per metà letti, la radio accesa.
La mattina di Julio Velasco, dieci giorni dopo la vittoria alle Olimpiadi, è con La Stampa in un dialogo serrato con il direttore Andrea Malaguti e chi scrive. Quell'oro così luccicante è la stella polare dei discorsi ma non l'unica luce che illumina i racconti dell'allenatore più vincente dello sport italiano.
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Ormai lei è un guru. "L'ha detto Velasco" è una frase che chiude i discorsi.
«Mi fa sorridere. Penso a me e penso alle ragazze. Sempre più spesso non siamo più persone ma personaggi. E il personaggi hanno vita propria. Autonoma. Io del resto da anni non controllo il mio personaggio. Sono rassegnato, lui va per conto suo e poi ci sono io».
Non è poi così male, tutto sommato. Il suo personaggio gode di un certo rispetto.
«Sì, d'accordo. Ma gli fanno dire cose che io non ho mai detto. Alcune anche buonissime, per carità. Ma poi c'è chi sostiene che potrei fare di tutto perché ho vinto con la pallavolo».
JULIO VELASCO DOPO LA VITTORIA DELLA NAZIONALE FEMMINILE DI PALLAVOLO ALLE OLIMPIADI
Mai pensato di fare politica?
«No. Me l'hanno chiesto in tanti, ma credo molto alla specificità. E poi non c'è spettacolo più grande al mondo dello sport e della musica. Il terzo classificato non entra neppure nella foto».
Qualche merito se lo riconosce?
«Ma no, lo so che sono molto bravo nel mio lavoro. Se poi uno riflette sulle cose che dico mi fa piacere. Anche perché io volevo fare il professore di filosofia al liceo e la filosofia di sicuro mi ha aiutato nel lavoro. Mi ha dato un metodo».
Qual è il Julio Velasco vero?
«Quello che va in Argentina tutti gli anni.
giovanni malago con julio velasco
Non per nostalgia del mio Paese, ma perché lì sono Julio. E basta. Tutti sanno quali fesserie ho fatto fin da bambino. Non devo mediare».
Cambio strada: meglio Lucchetta, Zorzi, Bernardi, Cantagalli e Giani, o Egonu, Orro, Danesi, Sylla?
«Bella domanda, ma paragone complicato.
La nazionale femminile ha raggiunto un traguardo straordinario. Forse la vittoria più importante, ma deve dimostrare di avere la continuità che ha avuto quel gruppo lì. Perché vincere è difficile ma continuare a vincere è difficilissimo».
La capitana azzurra Danesi ha definito la sua squadra «indistruttibile».
«Vero».
Lei che aggettivo userebbe per le sue giocatrici?
«Fantastiche. Sono fantastiche. L'ho sempre pensato. Sarà che ho delle figlie e che sono stato cresciuto da una mamma senza padre, ma penso che le donne abbiano una capacità di apprendimento straordinaria. Sono frenate dal fatto che non vogliono sbagliare mai e questo, a volte, impedisce loro di buttarsi. E poi questo gruppo è riuscito a cambiare delle cose in pochissimo tempo, premesso che è un gruppo che aveva già vinto».
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Che spogliatoio ha trovato?
«Alle ragazze ho detto subito che non me ne fregava niente che fossero amiche. L'aiuto in campo non nasce per questione personale ma perché fa parte del gioco. Se uno non aiuta, gioca male. Come in una azienda. Tutto qui».
Il gruppo non serve?
«Certo, che serve. Ma io cerco di non enfatizzare le cose che non vanno. Quante volte si litiga in famiglia? Peraltro ho abolito le camere fisse. Per cinque giorni sei in stanza con una compagna, poi si cambia. E non mi sono mai preoccupato di capire se a qualcuna non stava bene...».
Hanno litigato?
«No. Si sono chiarite. Non era facile stare tutto quel tempo assieme. Ci sono riuscite. Ho fatto con loro quello che avrei fatto anche con le mie figlie alle quali ho consigliato di convivere prima di sposarsi. Conoscersi è importante».
E la libertà quanto lo è?
«Molto, se si condividono le regole e gli obiettivi. Fine settimana libero, poi se c'è un procuratore o un fidanzato che viene a trovarci che male c'è a prendere un aperitivo o un caffè? Mica casca il mondo».
Dopo l'oro Egonu che cosa le ha detto?
«Niente, non c'era bisogno. Non ha parlato, ha fatto».
Che effetto le ha fatto il suo murale dipinto di rosa davanti al Coni?
«Ho pensato alla persona che ha compiuto quel gesto. Mi piacerebbe conoscerla, parlarle, capirla».
A Vannacci ci ha pensato?
«A Vannacci penso perché prende voti nonostante quello che dice. Significa che molta gente lo ascolta. Il cambiamento nella società è così veloce che c'è una parte della popolazione che non riesce ad accettarlo. E vota per lui».
Due fotografie della finale. La prima: Sylla e Danesi che si scambiano la medaglia sul podio.
«Giocano insieme da tanti anni, erano bambine quando si sono conosciute».
Simbolica, in un momento storico in cui discutiamo ancora di integrazione.
«Il mondo sta cambiando. E sta cambiando in meglio sui diritti. Donne, omosessuali, migranti. Qualcuno fatica di più ad accettarlo. Ma poi perché mai scegliere di integrare uno alla cultura dell'altro o convivere senza integrarsi? Vuole sapere una cosa?».
Voglio.
«Quarant'anni fa, quando sono arrivato in Italia, aspettavo con ansia la copia del Clarin che mi arrivava per posta una volta alla settimana. Avevo nostalgia. Adesso posso collegarmi in tempo reale. Il legame resta. Ma i ragazzi nati qui sono italiani a tutti gli effetti e spesso diventano più nazionalisti degli altri. Ai Mondiali del '90 le mie figlie detestavano Maradona perché attaccava l'Italia».
Maradona o Messi?
«Maradona, ma Messi è davvero tanta roba».
Ancelotti o Mourinho?
«Sono così diversi, è difficile scegliere. Certo quello che ha fatto Ancelotti mi sembra straordinario. Ho grandissimo rispetto per gli allenatori di serie A. Arrivare a quel livello è davvero complicatissimo, la concorrenza è feroce».
Anche lei ha giocato a pallone.
JULIO VELASCO DOPO LA VITTORIA DELL'ORO OLIMPICO DELLA NAZIONALE FEMMINILE DI PALLAVOLO
«Da bambino. Numero 10 all'inizio. Dopo poco mi retrocessero a centrocampo...».
Una fortuna per il volley.
«Una fortuna per me».
Torno ai Giochi. Benedetta Pilato dopo il quarto posto dice: il giorno più bello della mia vita, Di Francisca la fulmina in modo discutibile. Chi aveva ragione?
«Credo che la vittoria per un atleta consiste nel battere il proprio record. Pilato ha gioito per questo. Magari ha esagerato nel dire che era il giorno più felice della sua vita, però io le credo, bisogna entrare nella testa degli atleti».
E Di Francisca?
«Ebbi da ridire con lei a Tokyo. Facevo il commentatore e avemmo uno scontro. Aveva quasi insultato il suo allenatore subito dopo la gara e le dissi che era sgradevole. Poi cercò di raccontarmi, spiegarmi».
Seconda fotografia della finale. Le americane in fila a stringervi la mano e a farvi i complimenti. Bello, no?
«Molto. Gli americani hanno veramente una cultura sportiva straordinaria, io ho giocato molte volte negli Stati Uniti e lì nessuno si sogna di fischiare gli avversari. E poi con Kiraly e il suo staff c'è grande stima, ho imparato molto da loro. C'è una certa complicità. Detto questo, a Los Angeles gli Stati Uniti saranno difficilissimi da battere».
Qual è stata la partita più bella della sua carriera?
«Difficile da dire. La vittoria olimpica è stata forse la più bella nel senso della superiorità espressa in campo. Noi abbiamo fatto undici muri, loro zero. Una vittoria schiacciante che non abbiamo mai avuto con i maschi. Però certe vittorie con loro sono indimenticabili».
Zorzi o Egonu, chi sceglie?
«Non mi trascinerete in questo giochino».
Peccato.
«Troppe variabili da considerare».
(...)
Ce lo dice se resta sulla panchina dell'Italia?
«Resto. Almeno per il prossimo anno. Ho ancora il contratto. E poi abbiamo il Mondiale».
Velasco, che cos'è per lei la vecchiaia?
«Rita Levi Montalcini diceva che il cervello è l'organo che invecchia più tardi a condizione che sia allenato. Io penso a fare ancora altro dopo, voglio studiare l'inglese in America e poi dirigere le giovanili. È bello vedere un ragazzo destinato a diventare un campione. E poi c'è il lodo Clint Eastwood».
Cioè?
«A chi gli chiede perché continui a fare film a novant'anni lui risponde: perché non voglio che il vecchio prenda il mio posto».