Francesco Persili per Dagospia
De Coubertin si rivolterà nella tomba: nel 1924 ai Giochi di Parigi le donne erano il 4,4% del totale e il padre nobile dell’olimpismo fu costretto ad ammetterle contro la sua volontà.
Un secolo dopo le ragazze si sono prese la scena. Per la prima volta in questa edizione dei Giochi rappresenteranno numericamente la metà degli atleti in gara.
Marco Lollobrigida, vicedirettore di Rai Sport, sorride: “Lasciamo che De Coubertin dorma sonni tranquilli. Era un uomo del suo tempo, nel frattempo è cambiata la società e il modo di percepire la figura femminile. Il merito è delle donne, sicuramente, gli uomini non hanno dato un grande contributo”.
Nella spedizione azzurra la quota rosa è al 48% con 194 partecipanti su 402. Dai tempi di Ondina Valla a quelli della portabandiera-mamma Arianna Errigo, passando per Valentina Vezzali e Federica Pellegrini, lo sport ha spesso anticipato svolte e cambiamenti sociali.
Marco Lollobrigida, nel libro “Oro rosa. Le donne che hanno portato l’Italia in cima al podio olimpico” (edito da Rai Libri), passa in rassegna una galleria di campionesse “portabandiera del nostro dna vincente”, come scrive nella prefazione il presidente del Coni Giovanni Malagò: “Lo sport è stato in prima linea per l’affermazione della parità di genere, a ogni livello. Chi compete sa far parlare i risultati”. E spostare i limiti un po' più in là.
C’è la campionessa olimpica di ciclismo Antonella Bellutti, che qualche anno fa ha dichiarato pubblicamente la sua omosessualita: “Non l’ho dichiarato prima perché da atleta avere una etichetta e scomodo. Io mi sono sentita discriminata per tante cose: perché ero donna, lesbica, vegana. Il pregiudizio cambia padrone a seconda dei momenti”.
Gli ostacoli sono montagne da superare e ci sono certi incroci decisivi. O di qua o di là. Lo sa bene Paola Pezzo, nostra signora della mountain bike, che "come in un film di Checco Zalone" rifiutò il posto fisso alle Poste perché solo con un contratto a tempo determinato avrebbe avuto tempo per allenarsi e viaggiare.
Le donne si contavano sulle dita di una mano nella mountain bike: “Era uno sport maschilista, fatto per gli uomini. Dicevano che dovevi avere le gambe grosse; anche l’abbigliamento era da uomo; così mi inventai una linea da donna che non facesse perdere la femminilità, con la famosa scollatura”.
Si fa sport per liberare la propria personalità e liberarsi. Da schemi e incrostazioni culturali apparentemente invincibili. C’è una donna del sud temprata dalla fatica, dagli infortuni e dai sacrifici, Antonella Palmisano, campionessa olimpica della marcia, che non poteva dire a suo padre che andava ad allenarsi. C’è voluto l’oro a Tokyo perché il babbo si scusasse, in lacrime.
E ancora Caterina Banti, che trionfa tre anni fa nella vela, categoria Nacra 17, con Ruggero Tita, primo equipaggio misto nella storia italiana a conquistare l’oro. Ma anche lì, la maggior parte degli articoli è per lui, perché timoniere e perché uomo.
“C’è ancora molto da fare e molti altri muri da tirare giù”, sospira Lollobrigida: “Nel tennis c’è Jasmine Paolini, un esempio positivo, al pari di Sinner per i ragazzi abituati al nichilismo dei social". E anche nel giornalismo sportivo ci sono sempre più donne a guadagnare spazi all’interno di territori un tempo esclusivamente maschili. "Ci sono colleghe bravissime che hanno dovuto abbattere molte diffidenze. Un nome? Paola Ferrari. È stata una antesignana. Ha portato in alto la bandiera dell’emancipazione femminile…”
paola ferrari a la volta buona 2 paola ferrari a la volta buona 7
antonella palmisano 1 caterina banti marco lollobrigida caterina banti ruggero tita