Gaia Piccardi per il “Corriere della Sera”
C'era Federer e non la pandemia, 401 giorni fa: era un mondo migliore. Melbourne, 30 gennaio 2020, semifinale (persa) contro Djokovic, ultimo domicilio conosciuto. Roger è ricomparso ieri a Doha, tredici mesi abbondanti e due operazioni in artroscopia al ginocchio destro dopo: Rolex d'oro aziendale al polso, avambracci pelosi d'ordinanza, nasone piantato al centro dell'immagine traballante di Zoom, stempiatura in avanzamento veloce. «Mi rendo conto che il ritorno in campo di un giocatore di quasi quarant' anni sia un fatto singolare, però il ritiro non è mai stata un'opzione, credetemi». Gli crediamo, ci mancherebbe altro.
E dobbiamo fidarci di questa versione umanizzata e pagana del fuoriclasse svizzero, ormai lontanissimo dal ricordo di sé e dell'eroe immortale del tennis, nel frattempo agganciato a quota 20 titoli Slam da Nadal, con il fiato sul collo del solito Djokovic (18), semplicemente felice di esserci - vincere, figuriamoci, è un concetto che appartiene alla vita parallela dei colleghi che si sono ributtati da mesi nella mischia dei tornei -, e di camminare senza zoppia.
«La priorità era tornare ad essere una persona sana - spiega alla platea di media accorsi al suo capezzale -, voglio poter andare in bici, sciare, correre e giocare con i miei figli senza dolore. Non sentirmi un uomo rotto («broken man», dice proprio ndr ) per me è importante. Riesco ad allenarmi tre ore e mezza al giorno per cinque giorni di fila. Sarò competitivo in torneo? Boh, me lo chiedo anch' io. Lo scopriremo. Per ora, basta così».
Eccolo, il nuovo Federer a scartamento ridotto su un playground di colleghi ad alta velocità, sceglie un Atp 250 in Qatar («Volevo un torneo piccolo, dove lo stress è minore»), diretto dal suo amico Karim Alami («Ci conosciamo dai Giochi di Sydney 2000»), non lontano dal villone di Dubai dove ha svernato con la famiglia: debutterà contro l'inglese Evans o il francese Chardy, probabilmente mercoledì, nel tabellone che la testa di serie numero uno Dominic Thiem («L'ho visto vincere il suo primo Slam a New York in una situazione irreale - racconta -, non ho mai smesso di seguire i risultati in questi mesi, anche quelli del doppio e dei challenger...») guarda dall'alto in basso.
Quando dice che nemmeno lui sa cosa aspettarsi, è sincero. Ma perché sei tornato, Roger? «Perché la storia non è finita, non ancora». Accontentiamoci di questo simulacro di campione vetusto e fragile, incerto nei passi («Con lo staff ragiono giorno per giorno, dopo Doha un altro mese di allenamento e poi programmeremo la stagione sulla terra battuta»), disposto a perdere con un carneade che poi racconterà ai nipoti di aver battuto il più grande di sempre, o quel che ne resta, perché tra l'ipotesi di non rivederlo mai più e lo scenario di un lungo addio, una separazione ineluttabile, ma per gradi, è meno traumatica.
L'idea di passare di bolla in bolla, in questo tennis pandemico deciso dalle quarantene e dai tamponi, è ovvio, non gli piace: «Ho quattro figli, una vita piena anche senza sport» ci ricorda. La speranza è avere il tempo di esibirsi di nuovo in uno stadio pieno, darsi una chance sull'erba di Wimbledon (difficilmente a porte aperte, però), fare un ultimo giro di giostra olimpica a Tokyo, per poi tirare le somme in autunno. Ultimi sprazzi di Federer, questo passa il convento. Che ci piaccia o no.
roger federer alexander zverev Federer con Rolex Daytona roger federer 6 roger federer alla plaza de toros di citta del messico