Elvira Serra per il Corriere della Sera
Non poteva ricevere prova d' affetto più grande. Non soltanto dai sardi, la famiglia che ha scelto nel 1963 orfano di entrambi i genitori, quella che ha amato incondizionatamente (ricambiato), rifiutando perfino le lusinghe della Juventus che offrì un miliardo di vecchie lire all' allora presidente del Cagliari Andrea Arrica: pur di rimanere in Sardegna era pronto a smettere di giocare a calcio.
Gigi Riva, «Rombo di Tuono», record imbattuto di reti nella Nazionale (35 in quarantadue partite), l' attaccante formidabile che nel 1970 ha regalato l' unico scudetto ai sardi in un campionato di cui si ricorda ancora il siluro sinistro ai danni del Milan trasformato in gol a 130 chilometri orari, potrebbe essere il primo italiano al quale verrà dedicata una statua da vivo, come chiedeva da mesi un comitato di cagliaritani.
In deroga alla legge 1188 del 1927, articolo 3 («Nessun monumento, lapide o altro ricordo permanente può essere dedicato in luogo pubblico o aperto al pubblico, a persone che non siano decedute da almeno dieci anni»), ieri il ministro dell' Interno Matteo Salvini interpellato dal Corriere ha detto che si impegnerà personalmente per vederla realizzata: «Un campione come Gigi Riva, simbolo di un calcio romantico che ci manca, merita senza dubbio una statua. L' idea del comitato è ragionevole e non divisiva: farò di tutto per vederla realizzata, ma escludo che un omaggio a Riva possa essere prigioniero di vincoli burocratici. Auspico che l' opera possa essere realizzata in tempi rapidissimi e senza inutili complicazioni».
L' iniziativa «Una statua per Gigi Riva» era stata lanciata qualche mese fa da Pietro Porcella, insegnante cagliaritano residente in Florida, presidente del comitato di cui fanno parte anche Nicola, primogenito del bomber nato a Leggiuno, e Adriano Reginato, il portiere del Cagliari oggi 81enne con il quale «Rombo di Tuono» cominciò la carriera.
La statua, per la quale è partita una raccolta fondi sul sito gofundme.com , sarà alta tre metri e sessanta, il doppio del naturale, e riprenderà il calciatore nel famoso tiro mancino, il suo marchio di fabbrica.
È anche già stato scelto il luogo dove erigerla: il Lungomare Sant' Elia, davanti al Lazzaretto.
«È un omaggio non solo allo sportivo, ma all' uomo, coraggioso, leale e schivo e per questo amato e rispettato in tutto il territorio nazionale», c' è scritto nella lettera consegnata brevi manu al vicepremier dalla deputata grillina Emanuela Corda, nata quattro anni dopo che i rossoblù avevano conquistato all' Amsicora il primo (e unico) scudetto sotto la guida di Manlio Scopigno. Ci racconta: «Sono una tifosa del Cagliari, oltre a essere nata in questa città. Ho dato la lettera a Salvini in aula un mese fa, ma era da tempo che mandavo email per porre la questione. È un' idea condivisa con la famiglia di Gigi Riva ed è una bella cosa, perché lui rappresenta un patrimonio per noi sardi in Italia e nel mondo. Ci ha dato tanto, non solo dal punto di vista sportivo, ma anche per la sua testimonianza di valori etici e umani».
Il diretto interessato, restio per carattere a qualunque celebrazione (ma felice per ogni manifestazione di affetto e di interesse nei suoi confronti), accoglie la notizia sul divano, davanti alla tv. Al telefono, un po' emozionato, risponde: «Io non vado matto per queste cose, non mi piacciono molto... Però, se si farà, sarà una cosa molto bella, mi piace anche il luogo che è stato scelto. Non me l' aspettavo, ma è la prova che le persone mi vogliono bene e non si sono dimenticate di me».
Un certo Pelé detiene il record di statue nel suo Paese, il Brasile: nel 2014 erano già sei.
Ma lì nessuna legge le vietava.
RIVA
Alberto Cerruti per la Gazzetta dello Sport
Cinquant'anni a Cagliari. O meglio, cinquant'anni da sardo. Mezzo secolo da vagabondo, ma profondamente sardo, come si definisce Gigi Riva nei giorni delle sue nozze d'oro con la Sardegna, frugando tra mille ricordi, di vita prima che di calcio. Dalla diffidenza di un diciottenne, sbarcato controvoglia su un'isola sconosciuta, alla dolcezza di un nonno che si illumina parlando dell'ultima nipotina.
Riva, quando è incominciata la sua Sardegna?
"In aereo. Stavamo tornando da Roma, a metà marzo del 1963, dopo una partita vinta con la nazionale Juniores contro la Spagna, quando si avvicinò Lupi, mio allenatore del Legnano, per dirmi tre parole, non una di più: "Ti abbiamo venduto". Pensai al Bologna, perché Bernardini sulla prima pagina della Gazzetta aveva detto che gli piacevo, o all'Inter che mi seguiva ed era la mia squadra del cuore. Lupi non aggiunse altro e allora gli chiesi: "Venduto a chi?". Mi rispose "Al Cagliari" e per me era come se fosse caduto l'aereo. Gli dissi subito che non ci sarei mai andato, a costo di rimanere fermo un anno e lui sapeva che ero testardo".
E invece?
"Quando arrivai a casa, mia sorella Fausta, che mi faceva da mamma, mi invitò a riflettere e dopo qualche giorno di resistenza raggiungemmo un compromesso. Il presidente del Legnano, Caccia, un brav'uomo che non voleva perdere 37 milioni, tanti soldi allora, mi propose di andare qualche giorno a Cagliari, con la promessa di stracciare il contratto se non mi fossi trovato bene. E così in un giorno di primavera, ma non ricordo quale, andai con mia sorella e Lupi".
Come fu il primo impatto?
"Partimmo la mattina da Milano con un turboelica che fece scalo a Genova e poi ad Alghero. Arrivammo a Cagliari di sera e quando vidi le luci nel golfo mi lasciai scappare: "Quella è l'Africa". Lupi si arrabbiò e mi diede un calcio nel sedere. Il giorno dopo andai al campo, l'Amsicora, che non aveva un filo d'erba e pensai "Dove sono capitato". Però i ragazzi mi fecero festa e l'argentino Longo, una bella persona, mi prese subito sotto la sua protezione. Rimasi qualche giorno e l'idea di passare dalla C alla B alla fine mi convinse ad accettare".
L'inizio della nuova stagione fu più facile?
"I primi mesi sono stati tristi, alle nove di sera non girava più nessuno. Stavo con gli altri scapoli, Cera, Nenè, Tomasini. Non avevo la patente e mi aggrappavo dietro al tram per andare da via Roma a casa, senza pagare. Poi presi in comproprietà una Fiat 600 con Cera e Cappellaro, andando a guidare di nascosto sulla pista dello stadio, per imparare. L'istruttore un giorno mi disse che mi avrebbe dato la patente se avessi segnato la domenica. Feci una doppietta a Verona e arrivò la patente".
Aveva amici fuori dal calcio?
"Soprattutto pescatori, a cominciare da Martino. Mi voleva bene come un figlio, fu uno dei primi a invitarmi a casa sua, dove mi insegnò a mangiare il pesce con le mani, lasciando soltanto le lische".
Quando ha capito di amare la Sardegna?
"Andando nelle case dei pastori e negli ovili. Una volta mi portarono in un paesino, a Seui, in provincia di Nuoro mi pare, e sulla credenza di un'anziana, notai anche una mia foto, tra i santini dei suoi genitori. L'amico che mi accompagnava chiese perché c'era la mia foto e la donna, senza riconoscermi, rispose: "Quello è buono"".
E' vero che frequentava anche il latitante Mesina?
"La storia è diversa. Mesina ogni tanto mi spediva lettere con regolare francobollo, dove abitavo in via Diaz 30, con queste parole in stampatello: "Domenica vengo a vedere la partita. Vinciamo, forza Paris", che in dialetto vuol dire "forza insieme". Ne parlai con Cera, il capitano, che mi disse di bruciarle e ogni volta le bruciavo. Era un segreto tra noi due. Nessuno seppe mai niente, ma dietro le panchine mi è sembrato di vedere più volte Mesina in tribuna, con la barba, sempre immobile. Poi quando gli hanno dato la grazia, ci siamo visti qualche volta a cena dal mio amico Giacomo, perché adesso Mesina è un uomo libero. Pensi che fa la guida, autorizzata dalla Regione, per far conoscere l'isola ai turisti stranieri accompagnandoli su un'auto blu con autista".
Quanto ha influito lo scudetto sulla sua scelta di rimanere in Sardegna?
"Molto, anche se la Sardegna mi aveva già conquistato. Quando vedevo la gente che partiva alla 8 da Sassari e alle 11 lo stadio era già pieno, capivo che per i sardi il calcio era tutto. Ci chiamavano pecorai e banditi in tutta Italia e io mi arrabbiavo. I banditi facevano i banditi per fame, perché allora c'era tanta fame, come oggi purtroppo. Il Cagliari era tutto per tutti e io capii che non potevo togliere le uniche gioie ai pastori. Sarebbe stata una vigliaccata andare via, malgrado tutti i soldi della Juve. Dopo ogni partita spuntava Allodi che mi diceva "Dai, telefoniamo a Boniperti". Ma io non ho mai avuto il minimo dubbio e non mi sono mai pentito".
Che cosa le piace della Sardegna?
"Il verde delle foreste dell'Ogliastra, in cui cammini per venti minuti senza vedere il cielo".
E dei sardi che cosa le piace?
"La generosità. Mi hanno sempre fatto sentire uno di loro, attorno a tavolate con salsicce e maialino. E poi abbiamo lo stesso carattere, non ci mettiamo in mostra, siamo silenziosi. Voglio bene a Leggiuno, alle mie sorelle e ai miei nipoti lombardi, ma torno sempre volentieri qui, perché mi sento un vagabondo sardo".
Con eredi ancora più sardi...
"Ormai sono sei, tutti nati qui. Mio figlio Mauro, che ha una bambina, è il più sardo della famiglia, parla anche il campidanese, il dialetto di qui, guai a prendere in giro i sardi davanti a lui. Nicola ha tre femmine e l'ultima, Gaia, ha meno di un mese"
E un giorno racconterà anche a lei la bellissima storia del nonno Gigi che non ne voleva sapere di venire a Cagliari.