Stefano Semeraro per "la Stampa"
Il pellegrinaggio in Occidente lo abbiamo nel cuore da sempre, la notizia è che forse abbiamo trovato il nostro Siddhartha. Si chiama Matteo Berrettini e oggi sul Centre Court insegue il Nirvana di una finale a Wimbledon contro Hubi Hurkacz. Wimbledon, i Championships, Londra, anzi, la Sporting London fitta di ricordi che si srotolano dai Leoni di Highbury giù fino alla tibia magica di Capello, al Chelsea di Zola e Vialli, sir Gianluca, cercatore di sogni che domenica veglierà sulle ambizioni della Camelot azzurra in trasferta a Wembley.
L' erba nel calcio è il pavimento naturale; vincerci sopra, per noi italians assuefatti ai grandi trofei, non è strano neppure da queste parti. Nel tennis il discorso cambia. A Wimbledon siamo stati sempre ai margini del Tempio, parcheggiati fra i viaggi in Cinquecento di Gianni Clerici e la quasi impresa di Pietrangeli in semifinale nel 1960, guarda caso anche quello anno olimpico.
Dopo Nick mano magica, terraiolo imbucato nella giungla vegetale di uno Slam che allora per tre quarti si giocava sull' erba, abbiamo raccolto giusto altri due quarti di finale con Adriano Panatta nel '79 - lo sciagurato match con Pat DuPré - e Davide Sanguinetti nel '98. Così passare accanto ai Doherty Gates e leggere sul tabellone il nome di Berrettini a due passi dal paradiso è un' esperienza straniante, quasi mistica.
Divoratore di libri «Ma Wimbledon è un posto che ispira Matteo, tanto per usare un verbo che gli è molto caro». Stefano Massari è il mental coach di Berrettini, e insieme molto di più: un amico, un fratello maggiore che lo conosce da quando era un cespuglio di campione. «È un ragazzo profondo, che ama i luoghi pieni di storia, di epica sportiva, e la narrazione che c' è attorno a Wimbledon sicuramente aggiunge qualcosa alla leggenda».
Perché Matteo, oltre che il numero 9 del mondo e l' italiano più erbivoro di sempre, è anche un divoratore libri. «Sua nonna gli ha regalato Il Lupo della Steppa», sorride Massari. «Io, per quando tornerà, gli ho comprato Demian e Siddhartha, sempre di Herman Hesse, uno scrittore che parla di valori».
Di viaggi, di aperture mentali che a Matteo stanno a cuore. «Anni fa mi disse: "Stefano, non so se mi sento più tennista o hippie". Ora, hippie non lo è, Matteo, non vive così; ma di sicuro è uno molto spirituale, trascendente, fra anni '60 e '70 si sarebbe trovato a suo agio».
Uno che pascola all' orizzonte, che in campo cerca un senso, non solo volée vincenti. E che il ruolo di favorito non lo soffre più, anzi, lo vive con orgoglio. «Nel 2020 non era così, ma in questi due anni è cresciuto molto, il Berrettini di due anni fa non so se sarebbe uscito con tanta serenità dai bassi del match con Aliassime.
Mi sono scoperto a essere più nervoso io - dice Massari -, a urlare come un padre davanti alla tv. Del resto Matteo si presta ad essere figlio, fratello, amico, chiunque ci trova il ruolo che vuole. E lui è felice di giocarsela con il calore del pubblico, questa semifinale. Con fiducia, ma senza dare nulla per scontato». Scommettendo su ragione e istinto, Jack Kerouac o principe Gautama del tennis che sa che dietro la vittoria e la sconfitta, anche nello sport, c' è la bellezza del viaggio.
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